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 2025  aprile 08 Martedì calendario

Imperfetta e corale Atene anno zero

Alla fine del V secolo avanti Cristo si produsse nel mondo greco un grandissimo sconvolgimento. Con esso si concluse un processo che aveva dato vita alla prima forma conosciuta di democrazia. Una democrazia, quella ateniese, che, certo, escludeva ancora più dei tre quarti degli abitanti della polis. Ma quel regime politico era fondato sulla «partecipazione di una parte proporzionalmente considerevole della popolazione», scrivono Vincent Azoulay e Paulin Ismard in Atene 403. Una storia corale in uscita oggi per i tipi Einaudi. Una parte «in seno alla quale le disparità di ricchezza non interferivano con l’uguaglianza davanti alla legge». Uguaglianza di fronte alla legge in virtù della quale a quell’inedita forma comunitaria fu dato, appunto, il nome di «democrazia».
Il libro di Azoulay e Ismard – che dichiara il proprio debito nei confronti di alcuni testi fondamentali tra cui La guerra civile ateniese di Luciano Canfora (Rizzoli) – ha come protagonista il «coro» di personaggi sconosciuti che ci consentono di comprendere meglio quel che accadde. Del resto, in una vera tragedia – ha scritto Iosif Brodskij in Dall’esilio (Adelphi) – «chi muore non è l’eroe ma il coro». E, a maggior ragione, chi vive. Tra i personaggi «minori» di questo libro resta impressa la figura di Aristione che, riferisce Plutarco, qualche secolo dopo la crisi di cui ci occupiamo, allestì – nell’86 a.C. – un ballo nel momento in cui entrarono ad Atene, segnandone la fine, le legioni romane di Silla. Come gli Spartani nel 404 a.C. i soldati di Silla distrussero i bastioni della città ma, al contrario dei Lacedemoni, non si fermarono a questo. L’urbe fu lasciata alla soldatesca e Plutarco riferisce dettagliatamente dei loro agghiaccianti abusi: «Il sangue versato sull’Agorà coprì tutto il quartiere del Ceramico fino al Dipilo; secondo qualcuno straripò addirittura attraverso le porte e inondò i sobborghi». I più famosi simboli della cultura ateniese dell’età classica – l’Accademia di Platone, il Liceo di Aristotele, il santuario di Eleusi – vennero saccheggiati. Poi il generale romano si diresse verso il Pireo. Nel porto di Atene diede alle fiamme i magazzini e l’arsenale senza risparmiare dalla distruzione buona parte degli edifici pubblici. Molti in quei giorni scelsero di darsi la morte.
Non Aristione che «passava tutte le notti, senza eccezioni, in festini ed orge che duravano fino all’alba». Ballava la «danza pirrica» ed era, il suo, un modo di «sbeffeggiare i nemici». Quella «danza del coro», simile al ditirambo ma eseguita da uomini armati, scrivono Azoulay e Ismard, «non era affatto priva di significato». Presagio del disastro a venire, «essa mimava l’ultimo scontro con le legioni romane e, al contempo, celebrava la cultura corale ateniese». Quel ballo, che si protrasse per notti e notti, era, secondo gli autori, «l’espressione in un gesto estetico tanto effimero quanto eclatante, della coralità ateniese e del regime democratico, nella vana speranza di scongiurarne l’imminente scomparsa». E ci racconta, più dei fatti in sé, dei giorni finali di Atene.
Ma torniamo al V secolo quando tutto era cominciato. Accompagnata da una grave epidemia e da carneficine di massa, la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) si concluse con la disfatta di Atene e la dissoluzione del suo impero marittimo. Gli oligarchi ateniesi, «da tempo marginalizzati», approfittarono di quel momento per prendersi la rivincita sulla città. Con l’appoggio delle truppe spartane, una commissione di trenta ateniesi decretò la fine delle istituzioni democratiche che da più di un secolo governavano l’ordinamento della vita politica. Sotto la guida di Crizia e di Caricle, i «Trenta tiranni» ridussero drasticamente il corpo civico – ora limitato a tremila cittadini – e moltiplicarono le «esecuzioni sommarie, le spoliazioni arbitrarie e i bandi collettivi». Fu quello l’inizio della fine.
Gli ateniesi però in quell’occasione reagirono. Alla fine del 404 Trasibulo, un personaggio importantissimo che meriterebbe uno studio dedicato soltanto a lui, radunò un esercito di volontari composto da esiliati e persino da schiavi che, partiti da Tebe, conquistarono prima la fortezza di File, nell’Attica settentrionale. Qualche settimana più tardi presero il controllo del porto del Pireo, postazione strategica. Approfittando poi dell’attendismo degli spartani e delle spaccature in seno all’oligarchia, «quelli del Pireo» riuscirono a sconfiggere «quelli della città». Vinsero e all’inizio dell’autunno del 403 a.C. si ebbe infine la riconciliazione.
Trasibulo fu l’uomo simbolo di questa pacificazione. Gli furono concessi onori d’eccezione. A lui e a tutti i «liberatori». Con delle distinzioni come ha messo in rilievo Michael Scott in Dalla democrazia ai re. La caduta di Atene e il trionfo di Alessandro Magno (Laterza). Onori supremi, scrive Scott, furono per i «pochi coraggiosi che si erano opposti ai Trenta fin dall’inizio». Onori di grado minore vennero tributati a «coloro che, molto più numerosi, avevano risposto all’appello di Trasibulo allorché giunse al Pireo». E un grado ancor più modesto di onori fu riservato alle masse che «erano affluite al Pireo quando la sua vittoria appariva praticamente certa». Al «coro» di questi ultimi viene riservata da Azouley e Ismard particolare attenzione. Ci fu qualcosa anche per gli «stranieri», i non ateniesi che si erano limitati a dare una mano. A loro fu concessa l’esenzione dalla tassa che la città imponeva, appunto, ai non ateniesi. Un grande onore, secondo Scott, «ma non pari a quello della cittadinanza». Perfino agli sconfitti fu concesso di riparare in un piccolo territorio autonomo, Eleusi.
Tutto perfetto. Per questo – come ha fatto notare lo stesso Vincent Azoulay in Pericle. La democrazia ateniese alla prova di un grand’uomo (Einaudi) riprendendo gli studi di Claude Mossé su come la Rivoluzione francese «lesse» il mondo antico – Trasibulo ha goduto di un certo prestigio in Francia nei giorni che seguirono l’eliminazione di Robespierre. Prestigio «dovuto al fatto che Trasibulo aveva contribuito a imporre l’unità della città ai democratici vincitori nel 403». In una Francia lacerata come era quella del 1794 «Trasibulo appariva come il modello del conciliatore e gli oratori non esitavano a evocarlo».
Ma forse l’accaduto del 403 a.C. era stato tramandato in modo eccessivamente semplicistico. Nei vari libri che ha scritto su quella crisi, Canfora si è occupato più volte di Trasibulo. In Il mondo di Atene (Laterza), rifacendosi alle Elleniche di Senofonte (Bur), ha scritto che il «discorso sui cani» che Trasibulo fece alla fine di quella vicenda, fu solo in apparenza «un rasserenante intervento pacificatore». Trasibulo e i suoi nella realtà non vinsero sul campo di battaglia anche se ottennero «significativi successi parziali». Essi poterono rientrare ad Atene perché Pausania, il reggente militare di Sparta, aveva deciso di «abbandonare i Trenta al loro destino». E nell’improvvisato comizio con cui concedeva l’amnistia agli ex nemici, Trasibulo li invitò a riflettere sulla circostanza che gli Spartani si erano comportati con i tiranni «come si fa con i cani rabbiosi quando li si lega alla catena». Una «tirata» da parte del «liberatore» che conteneva un doppio monito: «Vi hanno lasciati in preda alle vostre vittime, in preda a noi altri che abbiamo patito la vostra ingiustizia» e «se ne sono andati». Come a dire: sono gli Spartani che ci hanno concesso di vincere e che potrebbero, se lo volessero, sguinzagliarci contro i nostri nemici.
Le cose in quel 403 a.C. non andarono, perciò, come secoli dopo vollero ricordarle i termidoriani. Nonostante le posizioni ufficiali, ha scritto Scott, la gente per di più «non poteva dimenticare tanto facilmente chi si fosse schierato con i democratici e chi no». Del resto, «almeno in parte questo era da prevedere». Dopo un po’ spuntarono i tribunali. Che divennero di importanza primaria fornendo «il luogo della discussione e del dibattito riguardo a ciò che era o non era permesso ricordare e perseguire». E non mancarono quelli che Scott definisce «incidenti di percorso». Persino Trasibulo, il grande protagonista che aveva guidato l’insurrezione e capeggiato gli uomini di File prima e poi quelli del Pireo, non riuscì a sottrarsi a «un intrigo politico-giudiziario». Fu accusato di aver richiesto illegalmente troppi onori per i «rivoluzionari», in particolar modo per gli «stranieri».
Ciò che quattordici anni dopo rese fattibile l’impensabile. In una notte del 389 a.C. nella lontana Panfilia, nei pressi del fiume Eurimedonte, alcuni uomini della città di Aspendo, esasperati dalle razzie e dai soprusi dei soldati ateniesi, si introdussero nella tenda di Trasibulo per ucciderlo. La Storia, scrivono Azouley e Ismard, «opera talvolta negli stessi luoghi, ma in senso inverso». Vale a dire? Il rinascente imperialismo ateniese subì «una feroce umiliazione proprio nella medesima zona che già era stata teatro di una delle più celebri vittorie dell’Atene del V secolo contro il re di Persia». Probabilmente senza che i «congiurati di Aspendo» si rendessero conto che stavano togliendo la vita al «liberatore del 403». «Così morì Trasibulo uomo stimato da tutti», scrive Senofonte «che sembra dispiacersi per la morte ingloriosa di uno dei più grandi eroi della storia ateniese». Uno dei pochi.
Rari furono infatti i suoi concittadini che ne piansero la morte. Rievocando l’annuncio ad Atene della notizia, Diodoro Siculo riporta semplicemente che gli abitanti della città «quando seppero della morte dello stratego Trasibulo, mandarono al suo posto lo stratego Agirrio». Tutto qui. A poco più di un decennio dalla restaurazione democratica, «la gloriosa memoria del liberatore», notano Azouley e Ismard, «aveva ceduto il passo alla diffidenza se non al rifiuto». L’uomo che nel 403 – sia pure con la benevolenza di Sparta – aveva ripristinato le istituzioni democratiche era ora sospettato di cospirare per il loro rovesciamento. Mentre parecchi suoi amici descritti come oscuri prestanome al soldo di uno stratego che se n’era andato a cercare gloria e fortuna al Largo della Ionia, venivano trascinati in tribunale. Nell’occasione, del resto, ci fu chi non esitò a paragonare Trasibulo al tiranno di Siracusa Dioniso, «come se, al pari di quest’ultimo, anche lui non avesse aspirato ad altro che a esercitare il suo potere personale».
In occasione di un processo interno intentato a uno dei suoi, Ergocle, un oratore si spinse ad affermare che la sua morte violenta ad Aspendo era stata addirittura «provvidenziale», perché aveva risparmiato la sua memoria dal disonore al quale era destinata. Trasibulo, disse Lisia, «ha fatto bene a morire come è morto, non doveva più vivere dopo aver tramato piani del genere (contro la democrazia ateniese, ndr)». E, proseguì Lisia rivolgendosi agli ateniesi nell’orazione contro Ergocle, «neppure morire per mano vostra, visto che in passato sembra che abbia fatto qualcosa di buono per voi». Da notare quel «sembra». Era opportuno, concluse Lisia, «che liberasse la città dal suo peso in questa maniera». Trasibulo, ci fa capire la «storia corale», era ormai diventato un «peso» per la città democratica. Non essendo riuscito, dopo il 403, a imporsi stabilmente nella vita pubblica, scrivono Azouley e Ismard, «perse la battaglia della storia e della memoria». Non riuscendo a imporre una propria ricostruzione degli accadimenti ateniesi in quel fatidico anno. Ed è proprio questa, in definitiva, la spiegazione della sua eclissi nelle fonti antiche. Tutto indica che a prevalere fu un altro «coro» che provò (e riuscì) a ricostruire il racconto dei fatti del 403 a proprio vantaggio. Nella fattispecie quello di Archino e della «comunità dei moderati». Un fenomeno che si è ripetuto più volte nella storia. Il «coro» conta più dei protagonisti. A meno che essi riescano ad impadronirsi del «coro». Cosa che accade assai raramente. Quasi mai.