La Stampa, 8 aprile 2025
Intervista a Carl Brave
Non è la Roma delle birrette tra amici a Trastevere e dei desideri a Fontana di Trevi. È quella degli «scontri grevi dopo il derby» e dei «fasci che fanno la ronda». Dopo quasi due anni, Carl Brave torna con Morto a galla, il singolo che anticipa il nuovo disco: una polaroid sulle ombre della Capitale in cui racconta anche il suo passato. Da ottobre, poi, sarà di nuovo live nei club italiani con un tour che esplorerà tutte le sue anime sonore.
Il “Morto a galla” è lei?
«Mi sento spesso così, ma credo capiti a tutti. Nella vita si scivola, succedono cose belle e brutte, e bisogna adattarsi. Non hai mai il controllo totale, è un’avventura continua».
Cos’ha fatto in questi 2 anni?
«Ho lavorato tanto. Ho scritto il disco e sperimentato con la musica elettronica».
Nell’album c’è tanto di lei?
«Ho fatto un percorso a ritroso nella mia vita: ricordi, esperienze, immagini. È un disco che mi ha portato a riflettere su me stesso, una sorta di autobiografia».
Canta “Alzo bandiera bianca, insulti da quella platea”. Qualcosa che le è successo?
«È una riflessione più ampia. Viviamo in un’epoca in cui il giudizio è immediato, soprattutto sui social. Le persone esprimono opinioni senza approfondire. Tutto è veloce: le notizie, i trend, i commenti. Con questo disco voglio rallentare, spingere chi ascolta a prendersi il tempo per capirlo davvero».
Dove trova l’ispirazione?
«Viaggio molto. Per produrre vado spesso all’estero: Giappone, Marocco. Mi porto dietro suoni e strumenti di quei luoghi. La mia musica ha radici italiane, ma ha influenze da tutto il mondo. Roma è fondamentale per me, poi c’è anche Berlino e tanti altri posti che hanno segnato il mio percorso».
Nel pezzo parla di risse, droga e prostituzione. Non è la solita Capitale da cartolina.
«È una Roma reale. Ogni città ha molte sfaccettature e ha anche un lato crudo. È una canzone nostalgica, che racconta anche la mia storia».
Se fosse stato lei il sindaco, a Capodanno l’avrebbe fatto esibire Tony Effe?
«A me Tony piace. Credo che il problema sia a priori, quando si decide chi chiamare. Il rap ha lingua e tematiche precise, se scegli un artista di quel mondo non puoi aspettarti altro».
Ha 35 anni. Al futuro e alla famiglia ci pensa?
«Vivo il presente. Se succede qualcosa, la affronto e ci metto tutto me stesso. Non mi faccio troppi piani a lungo termine».
Nel singolo ripete due volte la parola “empatia”. Si sente empatico?
«Cerco sempre di capire gli altri. Anche se sono molto istintivo, provo a mettermi nei panni delle persone che ho accanto».
Ha qualche rimpianto?
«Credo che tutto sia andato come doveva. Il grande cambiamento nella mia vita è stato lasciare il basket, che praticavo a livello professionistico. Magari avrei potuto fare scelte diverse in alcuni momenti, ma alla fine ho sempre seguito il mio percorso».
A Sanremo ci ha mai pensato?
«A un certo punto sì, poi l’idea è sfumata. Sanremo ti dà grande visibilità, ma mette anche una lente d’ingrandimento su tutto. Preferisco aprirmi con la musica, non troppo sul resto».
Il suo sogno nel cassetto?
«Più che altro ho un obiettivo: fare sempre qualcosa di nuovo, scoprire parti di me che ancora non conosco e portarle nella mia musica».
Secondo lei, perché la musica è così omologata?
«Ci sono vari problemi. Uno è l’eccesso di autori: troppe teste che scrivono canzoni un po’ per nessuno e per tutti, togliendo personalità alla musica».
E l’autotune?
«Si pensa che un artista debba per forza essere un fenomeno nel cantare, altrimenti non vale nulla. L’autotune, invece, dà la possibilità a tanti di comunicare. Certo, un cantante dovrebbe cercare di migliorarsi, ma la musica non è una gara a chi ha la voce migliore. Se usato bene, può essere uno strumento creativo, non un limite. E può aiutare i ragazzi che non hanno una super voce a fare i primi passi senza vergogna».
Da ragazzino si vergognava a cantare?
«Certo. Ho iniziato con il rap perché è un genere in cui non si deve per forza saper cantare. I primi concerti mi mettevano ansia, bevevo per farmi coraggio. Poi ho studiato canto e ho imparato. Con il tempo si cresce, non bisogna avere fretta o farsi bloccare dal giudizio degli altri».
Oggi i brani si consumano più velocemente che mai.
«È come un fast food: esce un pezzo, lo ascolti una volta e poi passi oltre. Il mio disco richiede più ascolti, è da metabolizzare. Spero che le persone gli dedichino il tempo che merita».
È dedicato a qualcuno?
«Un mio amico d’infanzia mi ha fatto notare che è la chiusura della mia vita da pischello. Lo dedico al vecchio me, a tutto quello che ho vissuto».
Questo autunno tornerà live. Cosa dobbiamo aspettarci?
«Sarà un concerto diviso in sezioni, ognuna con un sound diverso. Ho cambiato tanti stili, probabilmente farò dei medley delle mie fasi».