Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 08 Martedì calendario

Si restringe l’accesso alla cittadinanza per la diaspora italiana

Il Consiglio dei Ministri n. 121 del 28 Marzo 2025 ha approvato la riforma delle norme sulla cittadinanza collegata allo jus sanguinis. Malgrado l’attuale sia uno dei governi più sensibili al tema degli italo-discendenti (essendo questo un tema tradizionalmente più rilevante nell’agenda del centro destra piuttosto che in quella del centro sinistra), la riforma va nella direzione di un restringimento dell’accesso alla cittadinanza e quindi complessivamente non dà risposte alla necessità di un ingaggio strategico con la diaspora italiana nel mondo. Il decreto legge e i due disegni di legge in gestazione puntano a rafforzare il legame effettivo tra chi vuole essere cittadino italiano e l’Italia, contro gli abusi commessi negli anni da chi cercava il passaporto solo per ottenere cure sanitarie gratuite o poter viaggiare visa-free con un passaporto europeo. In questo modo si dà una risposta alle sofferenze amministrative dei Comuni, dei tribunali italiani e dei consolati, e si punta complessivamente a risparmiare risorse delle casse dello Stato. Si cerca insomma di rafforzare l’idea della cittadinanza come vera richiesta di far parte della comunità nazionale.
Potranno accedere alla cittadinanza solo gli italo-discendenti nati all’estero che hanno un cittadino italiano nato in Italia nelle precedenti due generazioni. Per i figli di italiani nati all’estero, la cittadinanza si acquisisce solo se nascono in Italia o se, prima della loro nascita un genitore ha risieduto almeno 2 anni continuativi in Italia. Con i seguenti disegni di legge si imporrà ai cittadini nati all’estero di mantenere legami reali con l’Italia almeno una volta ogni 25 anni attraverso il voto, il pagamento delle tasse o la richiesta di documenti. Si dovrà registrare atto di nascita prima del 25 anno di età e la richiesta di cittadinanza andrà presentata ad un ufficio centrale del Maeci con un costo che dovrebbe arrivare a 700 € (contro i 300 € di qualche tempo fa).
Questa riforma, se vista all’interno di una logica amministrativa, è sensata: riduce le pratiche e i costi. Il decreto è una scure che si abbatte sul numero totale di richiedenti asilo: Il risultato netto sarà un immediato calo delle domande e forse un aggravio per gli ospedali italiani che dovranno accogliere italo-discendenti in procinto di partorire. Tuttavia secondo una logica strategica nazionale non offre delle risposte ai temi macro di proiezione internazionale del nostro Paese. Non disegna politiche in grado di mettere a frutto il patrimonio costituito dalle numerose comunità degli oriundi italiani nel mondo, semplicemente chiude la porta. L’Italia è in declino: ha un peso demografico che si va restringendo e un’economia in calo relativo. Le proiezioni Onu ci dicono che per fine secolo la popolazione italiana scenderà sotto i 40 milioni di persone (dagli attuali 60) e che il Pil italiano è destinato a fuoriuscire dal gruppo delle prime dieci economie del mondo. Non siamo in condizione di poter sprecare alcunché.
La diaspora italiana nel mondo complessivamente è stimata sui 90 milioni di persone, concentrate soprattutto in Sud e Nord America, ma anche in Europa e Australia. Se pensassimo l’Italia come una comunità differenziata e però integrata di cittadini che risiedono in Italia, di cittadini che risiedono all’esterno e di oriundi che pur non avendo titolo alla cittadinanza preservano comunque un legame con il Paese, allora la comunità italiana ci apparirebbe come una comunità di circa 100/150 milioni di persone, disperse territorialmente su più Paesi e più continenti, e caratterizzata da una componente diasporica molto significativa. Tutto ciò avrebbe implicazioni di policy assai rilevanti per la politica, l’economia, la società, la cultura e la sicurezza del nostro Paese.
Alla base c’è un diverso modo di concepire la diaspora. In larghi settori dalla pubblica amministrazione e della politica domina una visione che pensa la diaspora come una “minaccia”: come un peso, un costo se non addirittura una truffa. C’è però una visione diversa della diaspora come una “opportunità”, una visione che pensa che se opportunamente attivate le comunità diasporiche posso dare un contributo importante in termini di influenza politica e soft power, di sviluppo di business e turismo, di condivisione di intelligence, di arricchimento culturale e forse anche in termini demografici. Il terreno è fertile, basti vedere la reazione stampa in Argentina e Brasile dove si è reagito al decreto gridando all’ennesimo tradimento. La comunicazione andava gestita meglio. Invece di segnalare che l’Italia è aperta ad ingaggiare la diaspora per sviluppare un futuro migliorie e una relazione mutualmente benefica in nome della comune origine, il messaggio recepito dall’altra parte dell’oceano è che “la festa è finita”. C’è ancora da imparare da paesi come Israele, la Cina o l’Irlanda che sanno come capitalizzare sulle proprie diaspore nel mondo.