Avvenire, 8 aprile 2025
Il secolo inquieto di Anna Kuliscioff
Icomunisti italiani rimasero sempre ancorati al dogma leninista secondo il quale la sinistra deve essere rivoluzionaria e l’unica forza rivoluzionaria è il comunismo. E siccome nel secolo scorso, per tutto l’arco della Prima repubblica, fu il Partito comunista che si impose a sinistra, ne derivò che le sinistre alternative al comunismo furono scomunicate come antiproletarie e reazionarie. A fare le spese di questo principio, che rimase indiscusso fino al collasso dell’Unione Sovietica, fu il riformismo, cioè quella linea secondo la quale si poteva essere progressisti e di sinistra senza essere rivoluzionari – ovvero senza essere comunisti – seguendo linea della democrazia, del cambiamento condiviso, delle libere maggioranze parlamentari, trasformando il sistema dall’interno e non imponendoglielo dall’esterno. In parole più semplici: la socialdemocrazia.
Giacomo Matteotti, che oggi tutti celebrano come un padre della repubblica, era appunto un riformista, un socialdemocratico, che allora cadde sotto il peso di questa scomunica. Quando fu assassinato, Gramsci lo definì impietosamente “pellegrino del nulla” e i comunisti italiani, fino al termine della loro parabola, non lo considerarono mai parte della loro storia. Nella mostra biografica che l’anno scorso gli dedicò a Milano la Fondazione Kuliscioff era esposta la prima pagina dell’“Unità” del 17 aprile 1924, due mesi prima del delitto, con un titolo addirittura brutale: «Le idiote insolenze dell’on. Matteotti».
Vittima della medesima scomunica fu un’altra grande figura della sinistra riformista italiana e internazionale: Anna Kuliscioff, della quale ricorre quest’anno il centenario della morte, avvenuta il 29 dicembre del 1925. Il giorno seguente “L’Unità” la liquidò con poche, lapidarie parole: «Le sue concezioni riformiste, la sua recisa avversione alla Rivoluzione bolscevica, l’avevano da diversi anni distaccata dal movimento rivoluzionario delle masse oppresse». La bella mostra che gli dedica ora a Milano la Fondazione che da lei prende il nome (“Io, Anna Kuliscioff”, Museo del Risorgimento, via Borgonuovo 30, aperta fino a tutto aprile, ingresso gratuito), sapientemente allestita da Walter Galbusera e Marina Cattaneo, presidente e vicepresidente della Fondazione, ha lo scopo di capovolge-re quel giudizio, restituendo a questa donna eccezionale il posto cui ha diritto non soltanto nella storia dell’emancipazione della donna, di cui fu paladina, ma proprio nella storia del riscatto delle masse oppresse, cioè nella storia della sinistra italiana e internazionale.
Anja Rozenštejn (Anna Kuliscioff è il nome che assunse in seguito per non essere rintracciata dagli agenti zaristi, quando abbandonò definitivamente la Russia) nacque in Crimea probabilmente nel 1854 (luogo e data della nascita non sono certi) da un’agiata famiglia ebrea. Andò a studiare filosofia in Svizzera perché in Russia le donne non potevano accedere all’università e quando fu costretta da un’ordinanza governativa a rientrare in patria abbracciò il movimento “andare verso il popolo”. Ricercata dalla polizia riparò a Kiev e poi fuggì nuovamente in Svizzera. Le varie sezioni della mostra documentano con precisione e con la forza incontestabile dei documenti e di essenziali pannelli illustrativi, senza ricorrere a nessuna sofisticheria multimediale (a conferma che si possono fare ottime mostre con poca spesa e valorizzando biblioteche e archivi), la sua vita appassionata e ribelle, sempre però attenta alla concretezza della vita e ai veri bisogni del popolo.
Scorrono così il suo legame con Andrea Costa, dal quale nacque l’amatissima figlia Andreina, le ripetute incarcerazioni, durante le quali contrasse la tubercolosi e l’artrite che non la lasciarono più, la fine della relazione affettiva e la solitudine. E poi i faticosi studi di medicina (per una donna dell’Ottocento) a Berna, Pavia, Padova, Napoli, dove riuscirà a laurearsi, la specializzazione in ginecologia per dedicarsi all’assistenza delle donne più sfortunate, l’abbandono delle idee anarchiche e l’avvicinamento al riformismo socialista, il rapporto con Filippo Turati, che durerà tutta la vita, testimoniato dal loro sterminato epistolario (6 volumi editi da Einaudi, una fonte imprescindibile della storia italiana). Infine il trasferimento a Milano, dove eserciterà stabilmente la professione medica diventando la leggendaria “dottora dei poveri” e fornirà un determinante contributo al movimento di emancipazione femminile, sempre su posizioni autonome e talora in contrasto con le analoghe tendenze presenti in città. La legge Carcano del 1902 di tutela del lavoro minorile e femminile fu in gran parte opera sua e tutta da rileggere è la sua celebre conferenza “Il monopolio dell’uomo” tenuta a Milano nel 1890.
Sono innumerevoli e ancora poco noti, ma tutti indicati in questa mostra, i contributi forniti da Anna alla maturazione di un socialismo democratico e gradualista, il peso decisivo che ebbe nell’orientare le posizioni di Turati (ne è prova l’epistolario prima ricordato) e probabilmente anche quelle di Matteotti, che definisce “quasi nostro figliolo”. Quando scoppiò la rivoluzione in Russia esultò per la fine dello zarismo, ma subito mise in guardia dal bolscevismo di Lenin, il “nuovo zar”, il fondatore di una nuova oppressione da respingere e da condannare. In questo fu lucidissima e tempestiva, come d’altronde lo fu Matteotti. Non meno lungimiranti furono le intuizioni che espresse durante la guerra, la preveggente visione della futura geopolitica mediterranea, che rendeva indispensabile prima la partecipazione italiana e poi la difesa della patria in pericolo dopo Caporetto, il plauso alla linea wilsoniana e la speranza, poi delusa, della nascita degli stati uniti d’Europa. Senza il suo influsso probabilmente non ci sarebbero stati i grandi discorsi politici pronunciati in questi anni da Turati, a sostegno dello sforzo di unità nazionale nel corso della guerra e contro il massimalismo e il comunismo durante il biennio rosso. Dalla sua abitazione milanese, luogo di incontro di povera gente, donne disperate che consultavano fiduciose la “dottora”, borghesia illuminata e socialisti spesso smarriti, in cerca di guida, Anna Kuliscioff guidò il socialismo italiano moderato e riformista più di quanto non si sappia, come si intuisce scorrendo i pannelli e le bacheche esposti a Milano. Tutto da capire, poi, il peso che esercitò nella redazione della rivista turatiana “Critica sociale”.
Nel corso di questo centenario la Fondazione preannuncia altre iniziative, dalle quali ci auguriamo che possa derivare un completo studio biografico, al momento mancante, in grado finalmente di restituire ad Anna Kuliscioff il posto cui ha diritto nella storia della sinistra e, più in generale, nella storia politica del nostro Paese.
Non si può concludere questa nota senza un cenno alle scelte di vita dei due nipoti di Anna, i figli della figlia Andreina. Questa abbracciò la fede e si fece battezzare, allontanandosi dalle posizioni della madre, che l’aveva cresciuta in forma totalmente laica (Anna, tuttavia, rimase fedele ai suoi principi libertari, rispettò l’autonomia della figlia e non fece nulla per intralciarla) e sposò un agiato industriale lombardo di famiglia austeramente cattolica: Luigi Gavazzi. Due dei suoi figli presero i voti e mostrarono un’autonomia di scelta non minore di quelle di cui aveva dato prova la nonna, sia pure di segno opposto: Anna Maria si fece monaca carmelitana di stretta clausura e Guido, già ingegnere elettronico alla guida di un’azienda, monaco benedettino, col nome di Egidio. Dom Egidio Gavazzi, ancora ricordato all’interno dell’Ordine di s. Benedetto, fu prima nel monastero di Parma e poi a Subiaco, dove diventerà Abate, con dignità vescovile.