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 2025  aprile 07 Lunedì calendario

Il nuovo inganno dei saldi online: chi si nasconde dietro a finti sarti italiani che vendono abiti cinesi

La storia inizia con un messaggio a pagamento diffuso su Facebook il 12 gennaio 2025. È una lunga lettera aperta di cui riportiamo la sintesi e i passaggi cruciali: dal 1987 tutte le mattine si alzano le serrande della boutique Svenna, in viale Italia 115 a Milano. A gestirla ci sono le sorelle Giulia e Sara, che però oggi sono costrette ad annunciare la chiusura del negozio per colpa della «concorrenza cinese a basso costo che svaluta il vero artigianato». Giulia e Sara proprio non ce la fanno a competere «con chi vende a prezzi irrisori e senza rispettare i produttori locali». Quindi, cari clienti «che avete significato molto per noi, inizia la liquidazione». Sul sito di Svenna Milano, tra le entusiaste recensioni di clienti e influencer, viene spiegato che, dopo quasi quarant’anni di lavoro, portati avanti «con coraggio e creatività tramandateci dalle nostre nonne» e sempre «riflettendo la moda e lo stile italiano» tutti i maglioni, le giacche, i pantaloni e i cappotti rigorosamente fatti a mano sono scontati «fino al 70%».
Persone, boutique: ci sono cascati in migliaia
Ci sono cascati in migliaia. Perché non c’è alcuna boutique Svenna, e viale Italia 115 a Milano neppure esiste: c’è corso Italia, ma si ferma al civico 68. E anche il negozio Semia Milano, che sul web vende abiti realizzati «con materiali pregiati», che poi sono gli stessi di Svenna, «abita» in viale Italia 115. La foto che invece ritrae le sorelle Giulia e Sara è con ogni probabilità costruita dall’intelligenza artificiale, ed è la stessa che compare pure sul sito di Essenza Milano. Altro inesistente atelier meneghino costretto a chiudere nonostante «incarni l’eleganza e lo stile italiano», dove però Sara stavolta si chiama Silvia. Le influencer sono inventate e le belle recensioni pure, mentre quelle vere parlano di «truffa» e «pubblicità ingannevole». I commenti entusiastici sono identici a quelli pubblicati online da Bottega Serrani: pure qui la bottega non c’è, ma sul web liquida tutto.
L’unica cosa reale sono proprio i siti di e-commerce, che però vendono qualcosa di molto diverso da come lo raccontano: la bella sartoria italiana, con quei «capi di alta qualità», in realtà sono abiti cinesi di bassa qualità e in vendita per pochi euro sulle piattaforme Taobao, Shein, Aliexpress. Per esempio il modello «Ilaria», un cappottino elegante che Svenna propone scontato a 54,90 euro, e che allo stesso prezzo Semia Milano mette in vendita come «modello Gaia», si trova su Aliexpress a 13 euro, su Taobao a 76,80 yuan (10 euro). Azienda produttrice: Yangjianghai Jingchuang Industry, con sede a Guangdong.
Una rete di siti truffa
Non c’è nulla di illegale nel vendere il prodotto di qualcun altro (dropshipping), guadagnando sull’attività di intermediazione. A condizione che venga dichiarato il nome del produttore e, naturalmente, che non venga spacciato per artigianato italiano di alta qualità l’abito uscito da un capannone cinese.
Altrimenti è una truffa, che alimenta quei 4,8 miliardi di danni causati ogni anno dal mercato del falso Made in Italy, con un consumatore su 5 che ammette di aver comprato online prodotti contraffatti credendoli autentici. Il nostro Dataroom parte da qui. Chi c’è dietro a questo filone di falsi artigiani in fallimento che sta popolando di svendite i social network? Ci aiuta Twin4Cyber, la start up di cybersicurezza fondata da Pierguido Iezzi, che ha seguito i gestori di questi siti, anche attraverso il deep web e il dark web.
Dove portano le tracce informatiche
Il sito Semia Milano viene registrato il 6 giugno 2024 a nome di Stefano M., un ignaro professore di liceo siciliano in pensione. In realtà le tracce informatiche portano a due fratelli olandesi, Tarik e Altan, che a novembre registrano anche un altro portale di e-commerce, con sede ad Amsterdam, dove vendono gli stessi abiti cinesi. I siti si somigliano tutti. Anche la registrazione della fantomatica sartoria Tagliabue di Bologna porta a un ragazzo olandese, che a fine 2024 pubblicava su siti filippini degli annunci per cercare «gestori di attività di dropshipping in Italia». La storia è sempre la stessa: su Facebook i fratelli Marco e Luca Tagliabue annunciano «con le lacrime agli occhi» la chiusura della sartoria perché «i grandi colossi» hanno avuto la meglio. Anche le parole sono le stesse usate nella lettera d’addio alla clientela da Anna e Marie dell’atelier Vittoria a Firenze, da Lorenzo e Francesca di Bottega Serrani, e dai fratelli Matteo e Lorenzo Sartori di Pelletteria Firenze. E dalla pagina Facebook di quest’ultima inesistente Pelletteria si finisce dritti sul sito di Svenna Milano, dal quale eravamo partiti. Tutti propongono i tessuti pregiati del rinomato artigianato italiano, ma agli acquirenti arrivano i soliti abiti cinesi. I truffati sono migliaia, e quando il cliente si accorge del raggiro è troppo tardi. C’è chi scrive all’indirizzo email lasciato dai venditori per lamentarsi, chi denuncia, chi scrive all’Antitrust. Ma uno dopo l’altro i siti chiudono, per riaprire poco dopo con nomi diversi.
Un’unica mente
Il raggiro non è nuovo (i primi casi risalgono al 2023), ma è piuttosto fondata l’idea che a tirare le fila di questa sfilza di negozi-fake ci sia un’unica organizzazione criminale con sede in Olanda. Invece i complici per la gestione dei profili Facebook e Instagram ci risultano in Italia, e quelli per lo sviluppo dei siti e delle pagine social in Asia. A dimostrarlo sono le impronte informatiche e il fatto che l’inganno si incardina sulla medesima matrice: la sartoria simbolo del Made in Italy, i titolari che ci mettono la faccia per raccontare la loro struggente storia di vittime di concorrenza sleale, con il cliente attratto dalla possibilità di fare una buona azione e contemporaneamente un buon affare. Che invece è un «pacco». Inoltre: i siti sono tutti registrati a partire dall’estate 2024, tutti realizzati con la stessa grafica, tutti vendono gli stessi prodotti agli stessi prezzi, e spesso sono pure uguali le recensioni e i testi per descrivere le policy su resi e privacy. Il sistema è completamente automatizzato, perfino la denominazione dei brand che richiamano all’italianità vengono scelti con Namelix, piattaforma di intelligenza artificiale che suggerisce i nomi più efficaci per ogni tipo di attività commerciale e che verifica la disponibilità dei relativi domini internet.
I negozi si appoggiano tutti a Shopify, piattaforma canadese che ospita 1,7 milioni di venditori da 175 Paesi e che lo scorso anno ha fatto ricavi per 8,9 miliardi di dollari. Shopify pensa a tutto, mettendo a disposizione le tecnologie che servono per gestire l’attività di dropshipping a cominciare dalle transazioni di pagamento. Su questa piattaforma – ce lo conferma la stessa Shopify – chiunque può iniziare a vendere senza dover aprire la partita Iva.
Chi indaga
Tre anni fa Shopify era finita nel mirino della Commissione europea «a seguito dei numerosi reclami», ma ne era uscita con un formale impegno a tutelare di più i consumatori. E allora, perché non ferma questa truffa? Di fronte alle lamentele dei clienti, ancora oggi risponde di non avere «alcuna voce in merito alla modalità con cui le attività commerciali sono condotte», però invita a segnalare: «Anche se per ragioni di privacy i risultati di eventuali indagini non sono divulgati, questo non significa che internamente non siano intraprese azioni». In sostanza qualora la piattaforma dovesse chiudere uno di questi negozi online, mai lo renderà pubblico. Intanto però i truffatori continuano a incassare. Da parte nostra abbiamo segnalato i fatti sopra esposti alla Polizia postale, che ci ha risposto di aver attivato verifiche e che il monitoraggio del fenomeno attraverso i propri Centri operativi per la sicurezza cibernetica è in corso. Speriamo bene.