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 2025  aprile 07 Lunedì calendario

Intervista a Giovanni Vernia

«Jonny Groove è morto. Non lo vedrete più». Parola di Giovanni Vernia, che qui tira una riga definitiva sul personaggio nato nel 2008 cui deve la celebrità: «Una cosa funziona se è reale. Oggi i locali sono in crisi: la gente si vede sui social. Non ha più senso fare uscire Jonny sul palco. Non saprei cosa raccontare. Addio».
Ha appeso i pantaloni muccati al chiodo?
«Sì, sono di fianco alla Gioconda, al Louvre. Per questo sembra che guardi di lato (ride). Jonny è morto, i discotecari si stanno estinguendo. Mi rifaccio con altri personaggi».
Un erede esiste?
«Nessuno come lui».
Genovese classe 1973, radici equamente divise tra Puglia e Sicilia, romano d’adozione ma prima ancora milanese «per cercar fortuna», Vernia torna in città (da imitatore ha iniziato allo Zelig) e al Teatro Manzoni l’8 e il 9 porta in scena (sold out) «Capa Fresca», da una frase del padre finanziere: «Tieni ‘a capa fresca». Ossia, parafrasa, «la testa libera da pensieri preoccupanti, pronta a trovare il divertimento anche nelle situazioni avverse».
Non sempre facile.
«Siamo schiavi dell’algoritmo, ad esempio. Lobotomizzati sui social non cerchiamo più gli incontri di persona. Come ci si ribella? Fregando l’algoritmo. Quello ci guarda, vede i nostri like. Io di like non ne metto, o li metto e li tolgo: voglio farlo impazzire».
La sua laurea in ingegneria elettronica aiuta a mettere a punto la strategia?
«Naaaaaa».
Ripartiamo da qui. Vernia, oggi attore, dj, producer, arriva a Milano a caccia di un lavoro.
«Gennaio 2000».
Carriera comica?
«No, da ingegnere elettronico. Mi sono laureato con 110 (senza lode, lo scriva sennò mi accusano di fake news)».
Insospettabile: era appassionato di numeri?
«Andavo bene a scuola, con mio padre militare (molto militare) i libri si sfogliavano da sé: o eri bravo o eri bravo. Ho scelto ingegneria perché era la facoltà che dava più possibilità di trovare un impiego. Quando sono arrivato a Milano avevo già il posto pronto come consulente per una società americana».
Primo impatto?
«Mi aspettava un amico in Bande Nere, fuori dal metrò: lo chiamavo al cellulare, sentivo la voce vicino a me, eppure non lo vedevo. C’era una nebbia così fitta che ci siamo scontrati».
Un must, la nebbia come primo ricordo.
«Noi che arrivavamo da fuori ne eravamo colpiti. Vabbè, si è estinta anche lei. Da Bande Nere, dopo due settimane, mi sono spostato in via Cilea: affitto con due colleghi, 600 mila lire a testa, i 600 euro di oggi. Ho vissuto a Milano 11 anni».
Sul lavoro come si trovava?
«Il primo giorno prendo alla lettera il contratto: fine turno ore 18. Il capo mi saluta: “Uè Giovanni, mezza giornata oggi?».

Imbruttitissimo.
«Da lì ho iniziato a stare in ufficio fino alle 23: tutta scena. In realtà la sera facevo le imitazioni dei miei capi coi colleghi alla macchinetta del caffè. A un certo punto mi mandano in trasferta a Dublino, c’erano consulenti anche da altri Paesi che invece se ne andavano dall’ufficio a orari normali. Mi avvicina il boss locale: “Scusi, Vernia, lei ha qualche problema? Finisce sempre così tardi...”. Vagli a spiegare che facevo anche lì le imitazioni, ma senza bere il caffè che faceva pena».
Come diventa comico?
«Sono un discotecaro nato, da qui il personaggio di Jonny, a Milano avevo stretto amicizia con un vicino che faceva il buttafuori alle feste di moda (e nel mio caso era un buttadentro, mi imbucavo ndr). Mi sentivo nello Studio 54: Giovanni dalla provincia nel luccicante mondo metropolitano. C’ero sempre e mi facevo notare con la battuta pronta. I locali top: Plastic, Old Fashion, GLounge. Il primo spettacolo l’ho fatto in una pizzeria di Famagosta gestita dall’amico di un amico: non vedevano l’ora che finissi. Ho capito che dovevo prepararmi seriamente e mi sono iscritto alla Scuola Teatrale di Improvvisazione Comica. Studiavo anche durante il lavoro, tanto la voglia di lavorare era poca…».
Così tirava le 23.
«Esattamente».
Oggi vive a Roma, però a Milano resta impegnato con la Gialappa’s.
«Loro sono come me, però molto più bravi di me: hanno il desiderio di essere attuali e di non stufare. Io lancio un personaggio ma dopo una volta mi stufo e vorrei farne già un altro. Loro riescono a essere più razionali e a capire quando una cosa sta per stufare davvero».

Cosa ama di Milano e cosa detesta?
«Amo il fermento, la vitalità. Non mi piace che si stia “newyorkizzando": nuovi quartieri con nomi inglesi, prezzi da New York».
Gli studenti fuorisede protestavano in tenda per i costi degli affitti.
«Se sei un fuorisede e vuoi laurearti a Milano quasi quasi ti conviene comprartela, la laurea (è una battuta!). I prezzi di Milano sono plasticamente descritti della mascella che cade dal fuorisede che arriva qui e li scopre».
C’è chi ha preso male le parodie?
«Quella di Sinner non è stata digerita da una frangia dei suoi fan, quasi ultrà. Lui è un personaggio super positivo e mi sono arrivati dal popolo social diversi attacchi. Ora, invece, quando lo vedono negli spot mi scrivono: “Non riesco a guardarlo senza pensare a te”. Bingo».
In tempi non sospetti (2013, 2015) ha imitato Fedez e Corona, due nomi che riempiono le pagine. È stato quasi un cronista.
«Entrambi fanno ancora molto discutere, apparire è una loro caratteristica. Quando Corona finì in carcere e io interruppi le gag mi fece arrivare dall’avvocato una lettera scritta a mano: peccato, ci divertiamo in cella con quelle imitazioni».
Jonny Groove era un uomo della notte. Avrebbe frequentato la Gintoneria?
«No. Jonny era un puro: non l’avete mai visto nemmeno bere».
Ha conosciuto sua moglie Marika quando era ingegnere. Vita stravolta, ora che è comico?
«Lei si è innamorata del pirla, non dell’ingegnere. Però sì: ha sposato un ingegnere e si è ritrovata un comico in casa, anzi fuori casa, perché non ci sono quasi mai per gli spettacoli. Le devo molto: grazie al suo supporto riesco ad avere la serenità per inventare cose nuove. Quando qualche collega si lancia in parodie delle mogli opprimenti io penso sia una cosa molto lontana da me: Marika è indipendente, abbiamo i nostri hobby (nel weekend io spesso vado in bicicletta per 70-80 chilometri e rientro tardissimo) con molta serenità. I casi sono due: o non mi sopporta o è una grande donna. La seconda senz’altra, la prima non è da escludere...».