corriere.it, 7 aprile 2025
Dazi, Trump ha dichiarato la guerra economica mondiale (e la sta già perdendo). Ma l’Europa che fa?
La settimana si apre sotto auspici tutt’altro che positivi per Donald Trump. I mercati finanziari, ma non solo, indicano che il muro tariffario più alto mai alzato dagli Stati Uniti nell’ultimo secolo e oltre (come mostra il grafico sotto) sia stato un passo troppo audace. La società americana per prima non sembra in grado di sostenerlo. Intanto la Cina sta prendendo contromisure che vanno ben oltre le ritorsioni già annunciate con prelievi doganali al 34% sui prodotti americani. Emergono segni che la Casa Bianca potrebbe essere diretta verso una sconfitta, nella sua scommessa protezionista. Quest’ultima non sarà facile da ritirare, soprattutto dopo aver alzato tanto la posta. Ma la debolezza crescente della posizione di Trump dovrebbe entrare nel calcolo, ora che l’Europa e l’Italia si chiedono se ribellarsi oppure subire: se rispondere con durezza o cercare soprattutto di evitare un’escalation.
Dazi, Trump ha dichiarato la guerra economica mondiale (e la sta già perdendo). Ma l’Europa che fa?
Le due Americhe
Siamo arrivati qua perché esistono, naturalmente, almeno due Americhe: la prima convinta di avere poco a che fare e molto da perdere con la globalizzazione; la seconda invece strettamente legata ad essa per la propria crescente ricchezza di questi anni.
La prima è l’America che ha subito sulla propria pelle i costi di oltre quarant’anni di crescenti deficit commerciali, soprattutto nei prodotti manufatturieri. L’economista Richard Koo del Nomura Research Institute ha mostrato nel workshop Teha di Cernobbio dei giorni scorsi come, dal 1980 al 2023, gli Stati Uniti abbiano accumulato un rosso negli scambi di beni con l’estero pari a oltre il 150% del loro prodotto interno lordo. Messi uno sull’altro, quei disavanzi commerciali valgono qualcosa come 42 mila miliardi in dollari di oggi. Fuori dalle cifre iperboliche, queste sono le delocalizzazioni verso la Cina e verso il Messico degli impianti dell’acciaio o dell’auto, la deindustrializzazione della Rust Belt e di un’infinità di altre aree produttive, la perdita di dignità di coloro che non hanno un diploma di college. In altri termini, come ormai noto, questi sono gli elettori di Trump. Sono il 38% degli americani che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e non hanno altro che debiti: sulla casa, sulla carta di credito o per aver mandato il figlio al college. Sono coloro che fanno sì che per le famiglie negli Stati Uniti il costo sugli interessi sui debiti siano pari al 10% del reddito disponibile, secondo il fondo d’investimento Citadel. Ogni dieci dollari in tasca, uno va a pagare solo gli interessi sui debiti contratti per andare avanti. Ma questa è una media impropria su tutta la popolazione: per quel 38% che non ha risparmi da investire in borsa, la quota di interessi sui debiti pesa sul reddito disponibile sicuramente molto di più di un solo dollaro ogni dieci. Queste persone si devono pagare case che dal 1980 sono rincarate del 96% in termini reali (cioè eliminato l’effetto-inflazione) – secondo le stime di Richard Koo – mentre i loro salari da allora sono cresciuti di meno del 15%.
A questa parte dell’America non importa se gli indici di Wall Street crollano a causa dei dazi, perché comunque non possiede azioni di Amazon, Microsoft, Tesla o di qualunque altra società. Questa America indebitata e senza risparmi apprezza invece un altro aspetto finanziario legato a Trump: da quando è tornato lui alla Casa Bianca il costo dei loro debiti è sceso, perché è sceso il rendimento dei titoli del Tesoro Usa; questo sembrava avviato al 5% sulle scadenze decennali quando Trump si preparava alla cerimonia di giuramento a gennaio scorso, ma ora è sotto al 4%.
Quel che sfugge, è che questo calo del costo del debito non è dovuto al risanamento dei conti. È dovuto al clima recessivo instauratosi nel Paese.
Così, ciò che ha fatto Trump alzando un muro sul resto del mondo sembra essere fatto su misura per questo ceto tagliato fuori da anche solo un minimo spicchio di compartecipazione in Wall Street. Trump sta cercando di spingere le imprese industriali di tutto il mondo a rilocarsi negli Stati Uniti pur di evitare i dazi; sta cercando di ridurre i deficit commerciali e di ridare un lavoro dignitoso a chi lo aveva perduto. Vedremo meglio sotto che non è il modo giusto, ma questo 38% di americani diseredati apprezzano perché chi di loro ha votato, lo ha fatto per quello.
Chi ha quote a Wall Street
Poi c’è l’altra America: il 62% della popolazione che detiene azioni quotate a Wall Street. Sono 162 milioni di americani. Dal giorno del giuramento di Trump, secondo i miei calcoli, queste persone hanno perso in media 47.500 dollari di risparmi per ciascuna a causa dei crolli delle borse. Questo vale anche per le molte decine di milioni di americani che sono esposti agli indici azionari solo perché i loro fondi pensione sono in gran parte investiti su di essi.
Va detto che le medie in questo caso sono insignificanti, perché il 93% di quelle azioni quotate a Wall Street e detenute da investitori in America (per un valore di circa 48 mila miliardi di dollari ai suoi massimi) si trova fra le mani di appena un decimo della popolazione. La restante metà circa dei residenti degli Stati Uniti, che hanno investimenti in borsa, controlla in tutto appena il 7% di quei 48 mila miliardi di dollari.
Da notare che questa America con azioni nei conti di risparmio – soprattutto il 10% più ricco – a differenza dei diseredati non ha subito alcun danno dai deficit commerciali sui beni: la deindustrializzazione non li riguarda perché loro sono medici, avvocati, persone di finanza, tecnologia o università. Al contrario loro hanno tratto vantaggio dal crescente surplus degli Stati Uniti nei servizi digitali con il resto del mondo (arrivato a 128 miliardi di euro con la zona euro nel 2023). Queste persone infatti hanno azioni di Amazon, Nvidia, Microsoft, Facebook-Meta o Google-Alphabet o magari lavorano per quei colossi, che in parte importante realizzano i loro fatturati all’estero.
Non stupisce che queste due Americhe – quella con debiti in banca e quella con azioni di Wall Street – vedano il resto del mondo in maniera totalmente diversa. Alla prima America non interessa, alla seconda sì. La prima America opera soprattutto nei servizi locali non specializzati ed è protagonista della grande economia più chiusa al mondo: il commercio estero per gli Stati Uniti vale appena il 25% del Pil, contro il 66% dell’Italia, il 45% del Giappone e il 37% della Cina. La seconda America dipende invece per la propria ricchezza dalla fortuna delle società quotate a Wall Street, dove quattro dollari ogni dieci dei gruppi dello S&P500 viene guadagnato all’estero (per le società tecnologiche è ancora di più).
In sostanza in America coesistono due mondi diversi, con percezioni opposte. Nell’alzare il muro dei dazi, Trump ha voluto fare gli interessi della parte più debole: le vittime e non i vincenti della globalizzazione.
L’obiettivo industriale
Ci provava anche Joe Biden, ma c’era una differenza: il presidente democratico cercava di pagare la reindustrializzazione del Paese con il denaro pubblico americano, finanziando grandi piani sussidiati da crediti d’imposta come l’Inflation Reduction Act sulle tecnologie verdi o il Chips Act sui semiconduttori; il presidente repubblicano invece cerca di far pagare la reindustrializzazione americana al resto del mondo, imponendo i suoi dazi.
Non può funzionare. Fallirà perché una recessione targata Trump è quasi inevitabile, se il presidente non fa marcia indietro. Perché quasi inevitabile? Perché la prima America – la più povera – sarà duramente colpita dall’inflazione sui beni importati e resi più cari dai dazi, dunque taglierà i suoi consumi. Anche la seconda America che è investita a Wall Street verrà colpita dall’inflazione, ma intanto lo è già da un crollo medio della sua ricchezza patrimoniale – appunto – di 47.500 dollari a testa fino a questo momento; di conseguenza, anche la seconda America stringerà sicuramente la cinghia.
Ma i consumi rappresentano ben oltre due terzi dell’economia americana. Una loro recessione non può che portare diritti dritti una recessione americana a tutto tondo, oltre che a una pessima notizia per il resto del mondo: il consumatore americano, da solo, fa girare quasi un quinto dell’intera economia internazionale. Dunque le borse cadrebbero ancora, aggravando l’effetto recessivo.
Scommessa contro il tycoon
Tutto questo mi fa pensare che Trump in questo momento sia politicamente un morto che cammina, anche se magari non lo sa. Non si può certo darlo per perso, perché ha già dimostrato di sapersi inventare ben altre resurrezioni. Ma altri Paesi hanno fiutato la sua debolezza e stanno scommettendo su di essa. Il Canada di Mark Carney, malgrado i grandi rischi, ha preso la strada della massima intransigenza nelle ritorsioni e ne sta già ricavando già dei risultati. E la Cina, che ormai vende da tempo la grandissima parte dei suoi prodotti fuori dagli Stati Uniti, non si è limitata a imporre i suoi contro-dazi al 34%. Giovedì scorso la banca centrale di Pechino ha annunciato all’improvviso che allarga il suo sistema di pagamenti internazionali imperniato sullo yuan digitale ai dieci Paesi dell’Asean (il gruppo di potenze commerciali asiatiche) e a sei Paesi in Medio Oriente. Di fatto per la prima volta Pechino disintermedia il sistema di pagamenti Swift a regia americana – che aveva dominato il mondo fin qui – grazie un sistema digitale molto più rapido ed efficiente. Copre già il 38% degli scambi mondiali, mentre gli Stati Uniti si isolano.
Di fatto la Cina ha chiamato il bluff di Trump e così ha fatto il canadese Carney. La Casa Bianca è in enorme difficoltà e dovrà probabilmente cedere, almeno di un bel po’. Solo in Europa e soprattutto in Italia sembriamo non averlo capito e preferiamo fare il meno possibile.