Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 07 Lunedì calendario

Intervista a Tracy Chapman

Non è sui social, negli Stati Uniti vive come una qualsiasi cittadina, non fa interviste da anni. «È la prima volta che ne organizzo un paio ravvicinate», ammette. A 61 anni Tracy Chapman è ancora la ragazza timida che nel 1988 diventò un fenomeno mondiale con solo una chitarra in mano, dopo aver partecipato al Concerto per Mandela di Wembley. Brani spogli e micidiali – Talkin’bout a revolution, Baby can I hold you, Fast car – per un album, il primo, omonimo Tracy Champman, da venti milioni di copie, appena ristampato in vinile. È questo che l’ha spinta a parlare di nuovo. In quei pezzi lei, afroamericana, dichiaratamente lesbica, femminista, cantava gli emarginati: povertà, razzismo, rivoluzioni sognate; gente per cui il sogno americano non era neanche cominciato. Era l’ultima fermata della canzone folk e di protesta statunitense. «E purtroppo è attuale».
È paradossale, non crede?
«Molto. Da cantautrice sentire che ciò che hai scritto è “attuale” è un complimento. Ma come essere umano sono delusa. Sognavo più giustizia, meno discriminazione. Sognavo, da donna, di girare per le strade serena. Ma i fantasmi sono ancora qui».
Chi era nel 1988?
«Una ragazza che aveva appena finito il college, laureata in Antropologia. Suonavo nei pub, la musica era tutto fin da bambina. Mamma, in casa, cantava sempre, mi aveva regalato un ukulele con cui, a otto anni, ho composto le prime canzoni».

La sua fortuna?
«Essere notata dalle persone giuste. Discografici e produttori che hanno arricchito le mie canzoni, per lo più acustiche, senza snaturarle. E che non hanno provato a cambiarmi. Poi, certo, fu difficile: il concerto per Mandela realizzò un sogno, ma mi spinse molto in là. Ancora non me lo spiego».
Ricorda com’è nata “Fast car”?
«Di notte, quasi di mattina. L’ho scritta tra le due e le tre, insonne. Seduta nella mia stanza. Era il momento migliore per farlo, di giorno sarei stata in studio. Ci ho messo una settimana, più o meno, a completarla.
A volte è stato più semplice, è come essere stata guidata da un flusso».
Il suo album fu il più venduto del 1988 anche in Italia, davanti a Venditti.
«Sono onorata. Ho ricordi confusi, all’improvviso io, figlia di una comunità operaia dell’Ohio, giravo il mondo. Dell’Italia mi ha colpito il calore del pubblico. Erano anni di scoperta del mondo, ci ho ripensato quando ho ripreso in mano queste canzoni».
Le è venuta voglia di un nuovo tour?
«Non pubblico un album d’inediti dal 2008, qualora ne nascesse uno sì. Ma non è nei piani. E la vivo serenamente, anche se non sono mai a mio agio con la fama».
All’epoca era più arrabbiata o speranzosa?
«Entrambe. È un retaggio del luogo da cui vengo, lì all’ottimismo si sommano rabbia e stanchezza. E poi queste canzoni hanno uno spirito adolescente, pensano di poter dare forma al mondo. Talkin’bout a revolution è nata che avevo 16 anni: ero certa che con un po’ di coscienza collettiva presto non sarebbero più servite marce per i diritti civili. Erano canzoni ambiziose».
Oggi pensa che la musica può cambiare il mondo?
«Può ispirare cambiamenti, che dipendono dalle persone. E renderle migliori. Per me è un vascello per portare messaggi. E un connettore: ai concerti gente d’estrazione sociale diversa convive in armonia, è prezioso. Poi sono un’ottimista, si figuri, anche se non conosco le nuove generazioni. Ma studio. M’ispira la vita di Fannie Lou Hamer, un’attivista che negli anni Sessanta si è battuta perché i neri del Mississippi potessero votare. È merito di quelle così, per dire, se godo di una situazione migliore. Veniamo da un mondo orribile, lottando è migliorato. Non smettiamo».
Che America vede?
«Un Paese in cui, nonostante tutto, la maggior parte della gente è legata alla democrazia, e non si rivede in ciò che sta succedendo. È anche questione di sensibilità: sento parole d’odio, di violenza; la Costituzione fino a prova contraria consente a tutti di dire ciò che si vuole, ma mi piacerebbe che fosse chiaro un limite, per cui posso uscire di casa mantenendo una dignità».
Perché è tornata a fare interviste?
«Perché c’è in ballo una ristampa, semplicemente».

Onesta.
«A 16 anni credevo che l’educazione e la rivoluzione ci avrebbero portati lontani: avevo ragione, ma era solo una parte del tutto. Ero protesa al futuro, ora so che la lotta è un percorso in cui non ci si può adagiare mai. Abbiamo fatto tanto, e tanto rischiamo di perdere. Ci stanno attaccando, c’è chi vuole limitare il nostro essere come vogliamo. E per andare avanti, dobbiamo difendere ciò che abbiamo conquistato. Nel 1988 non avrei mai pensato di dirlo. Ma non pensavo neanche che queste canzoni sarebbe state ancora attuali. Oggi sono un inno alla vigilanza dei nostri diritti».