La Lettura, 6 aprile 2025
I privati (come Musk) danno l’assalto al cielo
Dall’inizio dell’era spaziale i lanciatori hanno rappresentato la chiave del successo delle missioni celesti. E di gran parte del fascino dell’astronautica: alcuni scienziati hanno cominciato la loro carriera da bambini lanciando rudimentali missili fatti da tubi metallici tappati a un’estremità e riempiti di una miscela di zolfo e zinco. La storia dell’esplorazione spaziale è segnata da progressi tecnologici e scelte politiche difficili, come quella degli Stati Uniti che, al termine della Seconda guerra mondiale, decisero di garantire l’impunità all’alto ufficiale delle SS Wernher von Braun, progettista dei missili V2 che avevano bombardato Londra, e di metterlo a capo del programma spaziale americano. Un missile V2 è ora esposto in bella mostra allo Smithsonian di Washington, simbolo di un passato controverso ma anche della corsa allo spazio che ha definito la seconda metà del XX secolo.
In questo XXI secolo l’industria dei lanciatori ha subito una trasformazione radicale, che accompagna una crescita rapida – attualmente c’è quasi un lancio spaziale al giorno. Il panorama è dominato da sei principali attori: la statunitense Nasa, l’Agenzia spaziale europea (Esa), la russa Roscosmos, l’Agenzia spaziale cinese, i Paesi emergenti (India soprattutto) e il settore privato, statunitense, con aziende come SpaceX di Elon Musk.
Se le agenzie spaziali pubbliche continuano a investire in grandi lanciatori e missioni di esplorazione (in presenza di agenzie pubbliche nazionali o sovranazionali è inevitabile che la questione dei lanciatori sia legata alla gestione delle missioni e alla politica industriale), il settore privato statunitense ha rivoluzionato il mercato abbattendo tempi e costi di sviluppo e raggiungendo un grande rilievo. Ma che cosa c’è di vero nei messaggi che descrivono l’irreversibile supremazia del privato sul pubblico? E quali potrebbero essere le prospettive future?
Cominciamo a distinguere tra le principali destinazioni: orbita bassa (Low Earth Orbit), a circa 500 chilometri dalla Terra, sede della maggior parte dei satelliti attivi e della Stazione spaziale internazionale (Iss); orbita media (Medium Earth Orbit) a circa 20 mila chilometri, utilizzata in particolare per le costellazioni di satelliti di navigazione (la statunitense Gps, la russa Glonass, la cinese Beidou, l’europea Galileo); orbita geostazionaria a circa 36 mila chilometri, con il satellite immobile rispetto a un punto all’equatore; la Luna a circa 380 mila chilometri, obiettivo di missioni scientifiche e future colonizzazioni. I lanciatori «pesanti» sono progettati per trasportare carichi oltre 10 tonnellate (un satellite di una missione media pesa circa una tonnellata) in Leo, mentre i lanciatori medi trasportano tra 1 e 10 tonnellate in Leo, con capacità ridotte per orbite più alte.
Le agenzie nazionali di Urss e Usa sono state le protagoniste delle missioni spaziali dagli anni Sessanta. La Nasa ha registrato successi leggendari: Apollo, lo Shuttle, i rover su Marte e i telescopi Hubble e James Webb. Il budget annuale, pari a 24 miliardi di euro, riflette una grande potenza ma anche una struttura burocratica che rende il costo dei lanci tra i più alti al mondo. Il programma Space Launch System, pensato per missioni lunari e marziane, ha un costo previsto di circa 4 miliardi di euro a lancio. Per ridurre le spese, la Nasa ha esternalizzato missioni in orbita bassa (ad esempio i rifornimenti alla Iss) a compagnie private. La Nasa, che è sempre stata all’avanguardia, ha anche avviato la tecnologia dei lanciatori riutilizzabili, idonei a essere in parte recuperati e usati per più missioni, con riduzione dei costi e aumento della frequenza delle operazioni (in rete si trovano video spettacolari dell’atterraggio verticale degli enormi stadi di propulsione dei missili riutilizzabili. Questa tecnica è stata poi fatta propria da SpaceX).
Con un budget di circa 8 miliardi di euro all’anno (di cui poco meno della metà forniti da Germania, Francia e Italia), l’Esa è un attore importante. L’Agenzia spaziale europea adotta un modello consorziale in cui i Paesi membri si uniscono per condividere le risorse. Conta 23 Stati membri, e include i principali Paesi dell’Unione Europea oltre a Regno Unito (che però ha ridotto i contributi), Norvegia e Svizzera. La ripartizione dei contratti industriali tra i Paesi segue il principio del ritorno geografico: ciascun Paese dovrebbe ottenere un volume di incarichi e posti di lavoro proporzionato ai contributi economici e alle competenze che fornisce. I processi decisionali non sono veloci: se la programmazione del lancio di un satellite scientifico medio da parte della Nasa richiede 10 anni, il bando appena pubblicato da parte dell’Esa ne prevede 16 – questo gap naturalmente spinge i più brillanti progettisti, anche europei e italiani in particolare, verso la Nasa.
I principali lanciatori in-house dell’Esa sono Ariane 6, lanciatore pesante prevalentemente francese (può lanciare oltre 10 tonnellate, ossia 10 satelliti medi), soggetto a ritardi e costi crescenti; e Vega e Vega-C, lanciatori medi italiani per satelliti scientifici e osservazione terrestre. La Germania si sta affacciando alla tecnologia dei lanciatori medi. Domenica 30 marzo la spinoff tedesca Isar ha effettuato il primo lancio del suo razzo Spectrum, che si è schiantato pochi secondi dopo il decollo. L’Europa è in generale in grave ritardo nella tecnologia dei vettori riutilizzabili.
L’Esa, che investe più di un miliardo all’anno sui lanciatori, si trova oggi a comprare i lanci da SpaceX. Giocano a sfavore della competitività dell’Esa anche le regole dei contratti di lavoro delle organizzazioni intergovernative, l’alta protezione dei diritti e la necessità di rispettare il ritorno geografico, che spinge i Paesi membri a cercare di tutelare i loro investimenti a volte anteponendo l’interesse nazionale all’obiettivo generale. Inoltre, l’Esa richiede a chi propone progetti livelli di readiness tecnologica, ossia di garanzia di successo, estremamente elevati, evitando qualsiasi pericolo; ma questo approccio, che garantisce affidabilità, rischia di disincentivare l’innovazione.
Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, ha attraversato un declino significativo negli ultimi anni. La perdita di collaborazioni internazionali dopo la crisi geopolitica seguita alla guerra in Ucraina ha ridotto drasticamente i finanziamenti, ora di circa 4 miliardi all’anno. La Russia era leader nei lanciatori con i razzi Soyuz e Proton, ma la concorrenza di SpaceX ha eroso il suo primato. Nonostante ciò, Mosca ha ancora un knowhow invidiabile, e punta su una nuova stazione orbitale e sulla collaborazione con la Cina. Molti scienziati sperano in una prossima distensione internazionale per ripristinare una collaborazione che del resto non si è del tutto arrestata in settori strategici come quello della geolocalizzazione satellitare e della Iss.
Questa speranza è nutrita dalla Cina, che si giova dell’esperienza degli scienziati russi, e che potrebbe giocare su più tavoli. Proprio l’agenzia spaziale cinese, 12 miliardi di finanziamenti all’anno, è diventata una potenza con la flotta Lunga Marcia, la stazione spaziale Tiangong (il «palazzo celeste», cui ha collaborato anche l’industria italiana, anche alla radice della sensoristica cinese basata sui semiconduttori) e missioni scientifiche e lunari ambiziose. In passato esisteva una consistente collaborazione scientifica nelle scienze spaziali tra agenzie spaziali e di ricerca europee, in particolare italiane, e Cina, il che ha contribuito allo sviluppo del knowhow di Pechino. La Cina sta oggi preparando sistemi di lancio riutilizzabili per competere con SpaceX.
L’approccio proposto dai cinesi nello sviluppo delle missioni spaziali è stato molto pragmatico ed efficace. Oggi la maggior parte delle missioni comuni tra l’Occidente e Pechino è stata chiusa, ma si aspetta che da un momento all’altro la Cina apra collaborazioni internazionali commerciali, e allora il quadro cambierà.
L’India è emersa come attore di primo piano grazie soprattutto ai costi ridotti. Il lanciatore Pslv è uno dei razzi «medi» più affidabili per i satelliti commerciali, e il programma Gaganyaan mira a portare astronauti indiani in orbita. Anche il Brasile sta sviluppando capacità di lancio indipendenti. Il Giappone si è affacciato al mondo dei lanciatori da un paio d’anni soltanto, ed è in ritardo.
Ma la vera rivoluzione degli ultimi anni è stato il boom del settore privato statunitense, che ha ridotto i costi di lancio. SpaceX, con il riutilizzabile Falcon 9, ha abbattuto il costo per lancio da 100 a circa 50 milioni di euro; l’anno scorso il 95% dei lanci statunitensi è stato operato da SpaceX. Con il nuovo lanciatore Starship (alto 121 metri, quanto il grattacielo Pirelli di Milano e 11 metri più del vettore Saturn V che ha portato l’uomo sulla Luna) SpaceX sta per ridurre i costi a meno di 10 milioni, aumentando la capacità, ossia il peso del materiale trasportato. C’è però da dire che Starship ha oggi un’affidabilità piuttosto bassa: circa un missile su due cade o esplode – Musk ha scritto su X che «il successo è incerto, lo spettacolo è garantito». Nel 2000, il costo per mettere un chilogrammo in Leo era di circa 40 mila euro. Attualmente, il Falcon 9 di SpaceX offre un costo di 2.500 euro per chilogrammo. Con Starship, l’obiettivo è raggiungere un costo per lancio di circa 2 milioni di euro; questo potrebbe tradursi in un costo per chilogrammo ben sotto i 100 euro, che renderebbe l’accesso allo spazio davvero economico.
La rivista «Payload» stima in circa 12 miliardi all’anno il fatturato di SpaceX, che quindi sarebbe seconda solo alla Nasa. Di questi 12 miliardi, circa 4 sarebbero legati ai lanci. Blue Origin, la compagnia fondata dal patron di Amazon Jeff Bezos, Rocket Lab e altri attori stanno per sedersi al tavolo. I motivi del successo delle imprese private statunitensi includono l’accesso a scienziati ben formati e investimenti finanziari massicci. Queste condizioni hanno portato alla riduzione dei costi operativi. La rendita di posizione di SpaceX – che deriva dall’accesso a personale qualificato a costo zero – però non durerà a lungo se non continueranno i generosi investimenti pubblici statunitensi nel settore; questo dilemma metterà alla prova l’iperliberismo di Trump.
Il futuro dei lanciatori vedrà quindi il successo probabile di razzi riutilizzabili, una rivoluzione a cui presto bisognerà adeguarsi – non ha senso buttare l’auto solo perché è finita la benzina. I privati e i Paesi emergenti cresceranno, in particolare con l’ingresso della Cina nel mercato commerciale. Non andrà trascurato il problema della saturazione dell’orbita terrestre bassa. Con quasi 15 mila satelliti di cui oltre 11 mila attivi (si veda il sito web dell’astronomo Jonathan McDowell di Harvard-Smithsonian), e una previsione di oltre 100 mila (in media due per ogni grado di angolo celeste) entro il 2030 oltre agli inevitabili detriti, una regolamentazione diventerà cruciale, e costituirà un’importante sfida per la diplomazia multilaterale. Di notte è ormai frequente vedere i satelliti in Leo che si spostano velocemente – a 500 chilometri di altezza compiono oltre 15 giri della Terra ogni 24 ore. È una scena che non può non causare apprensione. Più di metà dei satelliti attivi fa parte della costellazione Starlink di Musk: un singolo privato ha messo in orbita grazie ai suoi lanciatori 7 mila oggetti, ciascuno oggi grande come un portone, nel cielo, che è patrimonio di tutti. Un nuovo Far West.
Come si vede l’industria dei lanci spaziali è in piena rivoluzione, con una corsa alla riduzione dei costi oggi dominata dai privati. Mentre le agenzie governative cercano di adattarsi, il futuro prossimo sarà segnato da lanciatori riutilizzabili, nuove economie spaziali e missioni sempre più ambiziose e innovative. Il nostro continente, in grave ritardo ma con solide basi nella formazione, nella ricerca e nell’industria che spesso però faticano ad arrivare ai grandi mercati e alle agenzie, dovrà adottare strategie efficaci per restare in gioco: non potrà rinunciare a massicce iniezioni di denaro pubblico per compensare la rendita di posizione dell’industria privata statunitense, e dovrà migliorare la produttività e la capacità dei propri attori per non sprecare questo denaro. Infine dovrà evitare che il finanziamento militare delle tecnologie spaziali diventi troppo importante, cosa che potrebbe contrastare con i valori etici oltre a rafforzare i Paesi inclini all’espansione delle spese militari.
Non è facile immaginare quale terapia dolorosa potrà scegliere l’Europa per garantire il suo ruolo nello spazio senza sacrificare la sua anima e la sua civiltà.