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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Dall’inferno del cuore uscì il partigiano martire

Il 18 luglio 1943 il ventiduenne Pedro Ferreira, sottotenente di fanteria di stanza in Dalmazia a Sinj, vicino a Spalato, scrive sul diario che ha iniziato da quattro giorni, dopo avere avuto notizia dell’avanzata anglo-americana in Sicilia: «Una nazione come l’Italia esuberante di vita e di gioventù non può morire per opera dei decrepiti plutocrati di Londra e degli scostumati avvinazzati di Washington o di New York. È una legge dell’eterno divenire delle cose umane che i vecchi debbano lasciar posto ai giovani. Forse solo la Russia potrebbe piegarci». Meno di due mesi dopo, il 10 settembre, dopo lo stordimento che l’armistizio ha provocato su tutti i soldati: «Siamo dei disgraziati, siamo dei poveri esseri abbandonati in balia degli eventi, siamo dei senza patria, dei senza legge e dei senza onore. Gli italiani, dopo quest’onta, non potranno più alzare il capo e parlare d’onore. Siamo dei traditi o siamo dei traditori?». Ancora, il 19 ottobre: «E poi un altro dubbio atroce mi tormenta l’anima: Vittorio Emanuele III ha dichiarato guerra alla Germania; io sono un ufficiale effettivo, ho fatto un solenne giuramento di fedeltà al Re; è giusto che io oggi combatta contro di lui a prescindere dal fatto che egli possa essere considerato o meno traditore del suo popolo? Ho la testa che mi scoppia, non devo pensare a queste cose che mi sembrano più grandi me». Il 5 novembre, dall’ospedale di Spalato: «Ho deciso: non appena ne avrò la possibilità me ne andrò coi partigiani. È triste e irrequieta l’odissea della mia vita ma ancora più triste e tormentosa è l’odissea dell’anima mia. Entro di me è un inferno, vi sono degli avversari irriducibili che si battono senza darsi respiro nell’arena del mio povero cuore».
In tre mesi e mezzo ha luogo, nella mente e nei comportamenti del giovane genovese Pedro Ferreira un mutamento vertiginoso e radicale. Da entusiasta della guerra, pronto ad «andare a comandare una banda di arditi cetnici volontari anticomunisti» decide di raggiungere i partigiani dell’Esercito di liberazione jugoslavo, quegli stessi che aveva già mostrato di ammirare mentre raccontava le violenze commesse contro di loro e soprattutto contro i civili dall’esercito italiano, di cui tuttavia «rispettavo gli ordini» (quelli famigerati presenti nella circolare 3c del generale Mario Roatta, di incendiare i villaggi e colpire anche donne, vecchi e bambini). È questo, senza dubbio, l’aspetto più affascinante di un diario che – già conosciuto in passato anche se parzialmente o con stesure diverse – viene adesso riproposto in edizione critica, grazie alla collaborazione di due tra gli istituti storici della Resistenza più attivi e presenti nel dibattito pubblico (quelli di Torino e Genova) per la cura, attenta, ricca di notizia, capace di un’interpretazione profonda, di Chiara Colombini.
Il processo che conduce Pedro a diventare antifascista e antitedesco è solo in parte consapevole, perché contiene una buona dose di casualità: e la felicità che racconta nell’essere diventato partigiano è anche per sentirsi in qualche modo ripulito dal passato ambiguo, riconoscendo che in Croazia gli italiani sono adesso vittime di quella violenza che avevano prima compiuto su vasta scala. Ferreira diventa partigiano azionista, nel gruppo di Duccio Galimberti, di Paolo Braccini, di Alessandro Delmastro, di Dante Livio Bianco – e dovrà piangere i primi tre, uno dopo l’altro – che ha il battesimo del fuoco nella Valle Grana e di cui assume poi il comando nella Dora Baltea.
Un altro aspetto che rende questo diario una sintesi documentaria perfetta del nuovo modo di leggere la Resistenza che la storiografia degli ultimi decenni ha ormai reso condiviso e prevalente (le tante Resistenze, la molteplicità di esperienze politiche e militari, quella delle donne e dei civili, la difficile e contrastata strada per l’unità partigiana) è il racconto delle polemiche e dei contrasti interpartigiani, da quelli più strategici sul prevalere della dimensione politica o di quella militare, alla distanza con i comunisti per la loro pretesa egemonia ma anche l’accettazione della loro prevalenza numerica, all’essere preso in mezzo tra «comunisti biellesi e autonomisti valdostani».
Pedro Ferreira, arrestato una prima volta nell’agosto 1944 e liberato in una complessa azione di scambio, ben raccontata da Chiara Colombini, che fa lo stesso per l’interrogatorio e il processo successivi al secondo arresto, avvenuto a Milano il 31 dicembre (il suo diario termina a Natale del 1944), vuole convincere il Clnai (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) e il comandante militare Raffaele Cadorna a costruire un esercito unitario, convinto di poter dare un contributo, come ricorda Colombini, «all’interno di un contrasto – quello tra concezione politica e concezione militare della lotta in corso – che nella storia della resistenza è strutturale».
Pedro viene fucilato il 23 gennaio 1945 al poligono del Martinetto a Torino. Erano famose fin dal dopoguerra le lettere scritte alla vigilia dell’esecuzione, ai familiari e ai compagni di lotta, dove metteva in guardia dal sovrapporre la vendetta alla giustizia, lettere che avevano segnato la memoria che di lui sarebbe rimasta e di cui oggi, grazie al diario, possiamo avere una visione più ampia, completa, e utile per comprendere un momento cruciale della storia italiana.