Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 06 Domenica calendario

Intervista a Massimiliano Tarantino

Se devo pensare al destino della sinistra – al suo caracollante andamento – la piazza ideale è alla Fondazione Feltrinelli, sancta sanctorum del pensiero del movimento operaio che qui più che un ectoplasma è una robusta presenza cartacea e digitale, fatta di annali e di libri che ne racchiudono sconfitte e vittorie, rivoluzioni riuscite e rivoluzioni debellate spesso nel sangue. I miti ci sono tutti: la Comune di Parigi (1870); la Rivoluzione bolscevica (1917); la Resistenza italiana; ci sono i carri armati sovietici e le relative invasioni di Budapest e Praga; c’è la Lunga marcia di Mao e la rivoluzione culturale; i deliri staliniani e quelli dei Khmer Rossi; la storia del Pci, la caduta del Muro e il crollo dell’Urss e via via fino all’ultima guerra in corso in Ucraina.
È un bollettino di sogni e di tragedie. Ma la Fondazione, mi dice Massimiliano Tarantino, è soprattutto il futuro. Ma c’è un futuro per la sinistra, e oggi cosa esattamente percepiamo di quel mondo diviso e incerto nella direzione da prendere? Che cosa capiamo del disagio di chi sente di vivere in un corpo che non è più il suo? Massimiliano Tarantino compirà 50 anni a ottobre e dal 2013 è a capo della Fondazione, scelto da Carlo Feltrinelli. Proviene da esperienze importanti, l’ultima delle quali a Telecom come responsabile della comunicazione.
Non si comunica un po’ troppo?
«Beh, dipende molto dalla qualità delle informazioni. La vecchia legge, secondo cui la moneta cattiva scaccia quella buona, purtroppo vale anche per l’informazione: quella cattiva sta avvelenando l’infosfera».
Immagino stia pensando ai social.
«Hanno contribuito in maniera massiccia al suo degrado».
Con quali effetti per la politica?
«La cosa più preoccupante, da un punto di vista politico, è che la destra ha saputo approfittare di questo cambio di paradigma. Essa parla agli istinti, mentre la sinistra non riesce più a parlare al cuore delle persone. Si va diffondendo una sorta di “troll-pensiero” che distorce e falsifica
, senza alcuna verifica dei fatti. L’espressione più compiuta al momento è Truth di Donald Trump, il social dove la verità è costantemente oltraggiata, un mondo falso che lui ha battezzato appunto Verità».
Perché uno appena rieletto presidente può permettersi di spacciare come vero ciò che è falso?
«Potrei risponderle per gli stessi motivi per cui milioni di americani lo hanno mandato al potere. In realtà c’è qualcosa di profondo che Richard Sennett, un nostro autore, ha posto sotto forma di domanda: perché la gente preferisce le notizie false a quelle reali?».
C’è una risposta?
«Accettare il falso comporta molta meno fatica che prendere coscienza del vero. Posso raccontare il falso con una bella narrazione, mentre la complessità del vero non tutti sono disposti ad affrontarla. Socrate fu messo a morte perché diceva cose spiacevoli ma vere e gli ateniesi non era disposti ad ascoltarle. Alla verità ci si predispone con argomentazione e dialogo
, strumenti che occorrerebbe apprendere fin da piccoli».
Lei ha avuto questa fortuna?
«Diciamo che la mia è una storia particolare. Sono nato a Trieste, vivendo tutta la complessità e la dolcezza di una città al tempo stesso dura e accogliente».
In che senso dura e accogliente?
«Ho in mente una Trieste pietrosa ma non aspra; una pietra carsica che nasconde e protegge o fa scorrere l’acqua, come se un elemento non possa fare a meno dell’altro. Dura e accogliente come può essere una grande pagina di letteratura. Qui scrittori come Slataper, Saba, Svevo, Magris, per non parlare di Joyce che vi soggiornò a lungo, hanno trovato il confine ideale».
Lei però ha deciso di andarsene.
«Sono andato via dopo la laurea. Ma non è stata una fuga. Studiavo giurisprudenza, collaboravo al Piccolo – quando era inviato Paolo Rumiz —, ero il figlio che aveva studiato e che avrebbe dovuto cercare la propria strada ovunque si presentasse. La mia famiglia è di origini istriane. Da quelle parti il dramma della guerra fu terribile: i titini la espropriarono di un’intera collina, case e terre comprese. I miei avevano faticato con il duro lavoro contadino e furono posti davanti a una scelta».Quale?
«Diventare comunisti oppure accettare il destino di profughi. La nonna istriana era il vero capo famiglia. Non amava il comunismo, ma fece in tempo ad andarsene prima degli eccidi. Furono circa 60 mila quelli che lasciarono il loro mondo istriano».
La sua famiglia di dov’era esattamente?
«Di Buie d’Istria. La prima volta che ho visitato quei posti ho visto che i nomi italiani sulle tombe erano stati riscritti in croato. Un modo per occupare gli affetti e non solo la terra».
Via dall’Istria ma per dove?
«Tutta la famiglia si spostò a Pordenone. Restò nella campagna limitrofa per una decina di anni coltivando campi. Poi la nonna decise che non c’era futuro lì e la famiglia si stabilì a Trieste».
Dove lei è nato.
«E dove sono rimasto fino a vent’anni. A quel tempo lavorai anche per una galleria e feci la mia prima mostra con Lorenzo Mattotti. Un’esperienza fondamentale è stata la collaborazione con Salvatore Settis, direttore allora della Normale di Pisa. Negli anni dal 2002 al 2006 divenni il suo portavoce».
Di cosa si occupava?
«Comunicavamo a un pubblico di non specialisti il lavoro scientifico e istituzionale della Normale. Sono stati anni per me molto formativi».
Anni che spiegano il suo passaggio alla Fondazione Feltrinelli.
«In mezzo ci sono state altre avventure, da ultimo quella importante con Franco Bernabè alla Telecom, prima di approdare in Feltrinelli».
Ma lei cosa c’entrava con il mondo della sinistra?
«Da giovane frequentavo una libreria anarchica interessandomi ai temi legati all’utopia. In famiglia, è vero, non c’era una cultura di sinistra, ma neppure di destra. C’era la cultura del lavoro e del rispetto. Avvertivo il bisogno di andare oltre questo orizzonte.
Fondamentale è stata la lettura di Pasolini».
Non è che la sinistra lo abbia così amato.
«Mi colpì che il Pci lo avesse irrimediabilmente giudicato e condannato per i suoi comportamenti privati. Alludo ovviamente alla sua omosessualità. A non accettarlo fu soprattutto la sinistra reticente e moralista. Certo, scoprii i suoi libri che era già morto da tanti anni, ma fu egualmente forte l’impatto di un intellettuale che continuava a sorprendere per lo sguardo critico e profetico con cui leggeva le dinamiche sociali».
Lei è nato lo stesso anno in cui Pasolini è morto. Poco prima nacque la Fondazione Feltrinelli.
«Si tratta di una coincidenza e non vorrei attribuirle nessun significato importante. Mi piace tuttavia pensare che in quella triangolazione io avessi un appuntamento con il mio futuro non scritto eppure in qualche modo determinato».
Come è arrivato a questo appuntamento?
«È stato fondamentale l’incontro con Carlo Feltrinelli.
All’interno ho potuto contare sul prezioso aiuto di Salvatore Veca. Un intellettuale di cui sento fortissima la mancanza».
La Fondazione esisteva in realtà già da prima.
«Esisteva sotto forma di biblioteca e di archivio storico. Fu Giangiacomo Feltrinelli nel 1949 a volerli realizzare. Il suo primo importante collaboratore è stato Giuseppe Del Bo.
Fu una decisione illuminata raccogliere il patrimonio culturale della sinistra, del movimento operaio e contadino e farne uno dei motori della conoscenza per gli studiosi e per il Paese».
Si aspettava che nonostante il retroterra di storie così importanti la sinistra potesse perdere quel ruolo
egemonico che molti le hanno attribuito?
«Da allora tante cose sono cambiate. Si stenterebbe con lo sguardo di quegli anni a riconoscere l’attuale panorama culturale. Ricordo che proprio con Veca, un anno dopo il mio ingresso in Fondazione, cominciammo ad analizzare quei problemi che ritenevamo potessero fornire una nuova identikit per una sinistra disorientata. Fummo tra i primi ad affrontare i temi della sostenibilità, della cittadinanza, delle nuove forme di conoscenza. Sfrondati dal velleitarismo ideologico».
Ammetterà che tali questioni 15 o 20 anni dopo sono ancora al palo. Con l’aggravante che tutti oggi parlano di sostenibilità.
«Purtroppo le parole troppo usate, spesso in modo strumentale, sono inutili stemmi con cui fregiarsi.
Non è facile far viaggiare le idee. La velocità con cui si muovono è inversamente proporzionale alla loro effettiva realizzazione. Il nostro compito è individuare quelle che possono rompere la crosta del conformismo sociale».
Nel momento in cui il movimento operaio ha pressoché esaurito il proprio ruolo che ne è della vostra identità?
«È un problema serio, lo riconosco. D’altra parte che si fa? Nel tempo ho incontrato alcune difficoltà con coloro che si ostinavano a riconoscere ancora un ruolo storico determinante al soggetto operaio. Il rischio così è di affidarsi quasi solo a pratiche liturgiche. Il punto è allora non tanto negare la presenza operaia nella società civile ma ricomprenderla e confrontarla con le nuove tecniche di sfruttamento, pensi ai nuovi schiavi dell’algoritmo, cioè i rider che ti portano la pizza a casa. Più che il lavoro si va estendendo il lavoretto. Si tratta perciò di ridefinire il ruolo, i compiti e l’identità della sinistra».
Nell’introduzione di “Tutti i colori del rosso” di Gabriele Santoro, edito dalla Fondazione Feltrinelli, lei scrive che la crisi della sinistra risale agli anni ’80.
«È una crisi che viene da lontano e ha caratteri strutturali. Non si tratta di un incidente di percorso, ma di qualcosa di profondo che attraversa la nostra fragile e stressata società civile. Da un lato le istituzioni sono percepite come distanti dalla gente; dall’altro, la sinistra non seppe cogliere la nascita di una nuova destra».
Ossia?
«Non seppe vedere, già negli anni Ottanta, la saldatura tra il messaggio politico e il messaggio televisivo, un accoppiamento che, nel giro di qualche anno, generò un nuovo mostro: il populismo. Anche l’azione berlusconiana dei primi anni Novanta la si vide come un fenomeno costruito dalla leadership di un singolo uomo senza capire che quel modello avrebbe riscritto il vocabolario della destra».

A determinare quello stato di cose ha contribuito paradossalmente proprio la caduta del Muro nel 1989. Non trova?
«Lo ricorda la filosofa Giorgia Serughetti nella postfazione a Tutti i colori del rosso: nel momento in cui crolla il Muro la sinistra abbandona i vecchi schemi ideologici e fa in parte propria la cultura neoliberista, basata sull’individualismo competitivo e sulla rimozione della solidarietà. Carlo Feltrinelli mise in guardia, qualche tempo fa, dal fondamentalismo finanziario. Ecco, ritengo che tra i compiti della Fondazione ci sia proprio l’obiettivo di analizzare la nuova natura del capitalismo, i suoi effetti erosivi e distruttivi come mostrano le scelte di Trump.
Purtroppo l’agenda non la dettano più i partiti ma i social. Viviamo sempre più in una sorta di presentismo politico. Tutto dura il tempo di uno slogan, di una battuta, di un gossip, di una borsa falsa. E tutto viene frullato con il liquido del malcontento che alimenta gli estremi della politica».
A questo siamo ridotti?
«Credo che le varie componenti della sinistra, o di quel che ne resta, debbano ricominciare a fare la loro parte, ribellandosi alla dittatura del presente. È quello che noi della Fondazione ci sforziamo di praticare. Aprire un varco che guardi al futuro. Tra i valori che abbiamo sempre difeso c’è anche quello della speranza. Sarebbe utile e bello ricominciare a sperare».