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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Filippo Sugar: “Il segreto è amare gli artisti”

Un raggio di sole pallido filtra timido in Galleria del Corso a Milano, storico punto d’incontro di musicisti affermati o in cerca di ingaggio. Qui infatti c’erano case discografiche, edizioni musicali e giornali come Sorrisi e canzoni, Tutto musica e tv come Mtv e anche gli uffici del Clan di Celentano. Oggi molti sono spariti o hanno traslocato ma una delle più solide, la Sugar Music, non solo è rimasta ma è diventata l’etichetta indipendente più importante del Paese, con autori come Andrea Bocelli e Lucio Corsi.
Proprio davanti c’è una targa a Giovanni D’Anzi che «scrisse le magiche note di O mia bela Madonina». Entrare nell’ufficio di Filippo Sugar, attuale presidente, è come fare un tuffo nella storia.
Quando è nata Sugar Music?
«Mio nonno Ladislao era ungherese e aveva avuto una vita avventurosa: erano gli anni Trenta, aveva girato tutta l’Europa ed era stato anche in prigione durante la Prima guerra mondiale, dove aveva imparato le lingue. Faceva l’impresario per le operette come La vedova allegra e alla fine decise di restare in Italia, lavorando come manager per un editore, Paolo Giordani, che aveva acquisito la società Suvini Zerboni, fondata nel 1907, di cui poi divenne socio. Durante la Seconda guerra mondiale Giordani fu esiliato perché era di famiglia ebrea. Anche mio nonno lo era, ma rimase qui trovando il modo di scansare le leggi razziali.
Dopo la guerra, Giordani non voleva più andare avanti. Mio nonno non aveva soldi ma alla fine comprò con grande fatica la società sfruttando laconoscenza delle lingue per rappresentare in Italia molti cataloghi americani di musica leggera e, pian piano, entrò nella discografia quando era agli esordi».
Cosa è successo poi all’azienda?
«È passata a mio padre, Piero. C’era un rapporto fortissimo tra di loro, anche se lui aveva un animo più letterario che imprenditoriale, ma non ha voluto interrompere l’avventura iniziata da mio nonno».
Che ruolo ha avuto sua madre, Caterina Caselli?
«Fondamentale. Ha di fatto interrotto la carriera artistica per qualche anno per entrare nell’azienda, portando una cultura di vicinanza agli artisti e una sensibilità che non era tipica dell’industria discografica di quel tempo. È stata una grande anticipatrice ed è lei che ha creato il Dna che oggi ancora abbiamo nel modo di lavorare “su misura”».
Poi arriva lei.
«Sono entrato a 21 anni. Stavo a Bruxelles, dove studiavo relazioni internazionali, ma era un momento di crisi per l’azienda. Nell’89 i miei vendettero la Cgd alla Warner.
Sembrava che i problemi fossero risolti, ma persistevano. Pensavo fosse giusto tornare a dare una mano. Ho iniziato occupandomi di Messaggerie Musicali: era un modo per evitare che quella storia finisse e non volevo. Così ho provato a dare una mano, facendo anche errori. Poi le cose sono tornate positive e, alla fine, sono rimasto».
La vostra filosofia è diversa rispetto a quella delle major?
«Noi continuiamo nella nostra dimensione di “boutique creativa” vicina agli artisti. Non siamo un’industria, abbiamo unadimensione di azienda artigianale e così riusciamo a lavorare su misura con una progettualità che calza le diverse personalità degli artisti. Ci vuole fiuto, ma anche molto lavoro basato sul rapporto umano. Devi stare vicino alla fonte creativa e crederci perché non ti guida il risultato, ma l’innamoramento. Ci viene più naturale innamorarci di qualcosa e tener duro, aspettando la crescita dell’artista con noi. A volte questa cosa paga, a volte no».
Sembra una filosofia molto controcorrente oggi.
«Noi non possiamo fare altrimenti. La nostra è un’attività familiare nel settore della musica. Non vedo l’azienda quotarsi in borsa. I miei figli poi faranno quello che vorranno».
Com’è nato il vostro rapporto con Lucio Corsi?
«L’abbiamo conosciuto come facciamo di solito: un incontro dove lo facciamo suonare, cantare. Ce lo portò il manager, Matteo Zanobini, che lavorava con noi. Poi ho scoperto che mia mamma aveva partecipato a una manifestazione dell’Istituto dei tumori dove c’era un concorso con giovani artisti. C’era Lucio e mia mamma e Mara Maionchi lo votarono. Io non sapevo questa cosa, l’ho scoperta dopo. Lucio poi è venuto qui, si è messo al pianoforte e così ci siamo innamorati. Era così bravo ed emozionante che l’abbiamo subito firmato, anche se poteva sembrare una cosa fuori dal mondo».
Come si prosegue poi?
«C’è una fiducia di fondo: se ci siamo innamorati noi perché non dovrebbero innamorarsi gli altri? Poi dobbiamo portare opportunità all’artista. La serie di Verdone, Vita da Carlo ,è stata una cosa molto importante per Lucio. Ne abbiamo parlato a lungo e alla fine ha deciso di buttarsi. È stata una cosa fondamentale perché senza quella forse non sarebbe andato a Sanremo. Ha visto che non è rischioso aprirsi e quello forse lo ha convinto. Il Festival consente di presentare sul palco, davanti a 10 milioni di italiani, una proposta musicale. E, quando la proposta ha la sua forza, funziona».
Siete anche strutturati per gestire gli artisti dopo il successo che forse è la parte più difficile?
«Lavoriamo con pochi artisti, circa 13-15, ma lo facciamo ad alto livello grazie alle tante cose fatte nel passato. La gestione di un artista come Bocelli in tutto il mondo per 25 anni forma un’esperienza».
Com’è strutturata Sugar oggi?
«Abbiamo Cam Sugar che si occupa prevalentemente della riscoperta di un catalogo di 2500 colonne sonore che non erano più disponibili. Quando l’abbiamo comprato, si potevano ascoltare solo 60-70 titoli su supporto fisico. Il nostro scopo era far conoscere questo patrimonio dimenticato. Abbiamo fatto un grande investimento per ritrovare, masterizzare, editare e immettere le matrici sul mercato. Così, da 60-70 colonne sonore pubblicate nel 2013, siamo arrivati alle 850 di oggi. Ci sono Morricone, Rota, Ortolani e tutti i grandi compositori italiani di musica eccezionale che adesso, da Tarantino in poi, tutti ci chiedono».
C’è anche musica contemporanea nel vostro catalogo. Come mai?
«Questa è l’etichetta SZ Music: abbiamo quasi tutta la musica assoluta di Morricone e alcune sue colonne sonore. Mio nonno iniziò negli anni ’50 a firmare compositori di musica nuova quando altri non la consideravano, tra cui Luciano Berio. Ho sempre pensato che sia un dovere di un editore musicale avere un’area di ricerca. È molto importante mantenere quella dimensione, anche se economicamente fa fatica».
Come vede il futuro?
«Mi piace la musica che si auto-rigenera con intuizioni sincere, come un fiume che non smette mai. Dobbiamo alimentare la ricerca della qualità. L’intelligenza artificiale può spaventare persone della mia età, ma i ragazzi sono meno spaventati, e anche questo mi fa essere ottimista».
Cosa ci insegna il recente successo di Lucio a Sanremo?
«Che il pubblico spesso, quando ha possibilità di confronto, sceglie bene. Quando una cosa è diversa dal flusso del momento, fai fatica a trovare chi ha il coraggio di puntare su quella diversità. Per questo Sanremo è sempre stata una grande opportunità per noi. Il talento c’è ancora e va portato avanti con coraggio da noi e spesso dai media che a volte si innamorano anche loro e ci aiutano a sostenere un progetto considerato “difficile”. Il pubblico non è chiuso alle novità ed è tutt’altro che passivo.
L’apprezzamento per Lucio forse è andato anche oltre la musica: il suo essere toccante, umile, gentile ha creato un innamoramento per il personaggio. Lui non è arrivato all’improvviso ma dopo una già lunga carriera, con gli anticorpi al successo. E questo lo aiuterà ad attraversare questa fase con serenità».
Un’ultima curiosità: si dice Sugar all’italiana o all’inglese?
«In realtà mi hanno detto che si dovrebbe dire Sugàr (ride)».