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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Il dopoguerra di Avedon

Iniziamo da qui, perché questa è una foto che non è in mostra», ci dice James Martin con un sorriso, sottolineando l’apparente contraddizione mentre indica un’immagine che ritrae Richard Avedon. All’epoca, il fotografo aveva solo ventitré anni ed era appena uscito dalla marina mercantile. Aveva trascorso gli anni della Seconda guerra mondiale a New York, realizzando migliaia di ritratti per i documenti di identificazione con la sua Rolleiflex, la fotocamera che suo padre gli aveva regalato. Non era mai stato all’estero fino a quel momento: «Nel giro di pochi anni» prosegue Martin, che è il direttore esecutivo della Avedon Foundation, «incontrò Alexey Brodovitch, che lo aiutò a mettere insieme un portfolio e gli permise di iniziare a lavorare per Harper’s Bazaar. Dopo un periodo relativamente breve, ebbe l’opportunità di andare a Parigi per fotografare le collezioni di moda, ed è proprio in questo contesto che si colloca questa immagine».
Siamo a Roma, alla galleria Gagosian, per visitare Italian Days,mostra che raccoglie più di venti fotografie scattate da Avedon per le strade di Roma, Sicilia e Venezia, in scena fino al 17 maggio. Diciotto di queste fanno parte della serie Italy (1946–48) e sono presentate per la prima volta nella loro interezza.
Accanto a questi scatti troviamo ritratti che definiscono lo stile distintivo del fotografo. «Queste immagini italiane rappresentano le radici della sua futura produzione fotografica», afferma Martin.
Addirittura?
«Basti pensare che i diciassette scatti della serie italiana sono le uniche stampe che Avedon ha realizzato di quel periodo. Non ne esistono altre. Questa è la prima volta che li esponiamo tutti e diciassette insieme, proprio per dare loro un contesto e mostrare al pubblico come, anche con immagini scattate negli anni Quaranta, i suoi temi, il suo stile e la sua estetica abbiano continuato a riecheggiare nel suo lavoro successivo».
Perché solo diciassette? Ha distrutto tutti gli altri negativi?
«Avedon era meticoloso nella selezione delle immagini. Come un editore con una serie fotografica, sceglieva solo quelle che riteneva rappresentative del progetto. Il resto dei negativi è conservato negli archivi di New York, che contengono circa 500 mila scatti.
Era solito distruggere i negativi che non considerava degni di essere tramandati. Con questa mostra, abbiamo voluto dare un’idea di chi fosse Avedon a 23 anni, mentre viaggiava e osservava il mondo».
Guardando la mostra, viene in mente la parola “contrapposizioni”.
«Abbiamo voluto creare giustapposizioni dirette per mostrare connessioni visive ed estetiche tra i diversi lavori. Un esempio interessante è la sua serie sulle catacombe: perché ha scelto proprio queste immagini? Cosa lo affascinava nella loro composizione? E dove ritroviamo elementi simili nel suo lavoro successivo?».
E che risposte vi siete dati?
«Ad esempio, il ritratto di Elise Daniels del 1948 a Parigi presenta elementi che si ritrovano in queste fotografie italiane. Ma non è solo una questione di stile. C’è anche un’energia, una vitalità, un senso di gioia di vivere che volevamo mettere in risalto. Pensiamo allo scatto di Dorian Leigh con il ciclista: nei primi ritratti italiani di Avedon si avverte la stessa spontaneità, la stessa leggerezza.
Ma il fotografo ha catturato anche il dolore e la devastazione dell’Italia del dopoguerra. La serie italiana si avvicina più a un reportage che alla fotografia di moda o al ritratto posato. Abbiamo cercato di intrecciare questi due aspetti per coinvolgere il pubblico».
Un altro parallelo interessante sembra essere quello con il progetto “Nothing Personal”, realizzato con James Baldwin.
«Esattamente. Quel libro denunciava le ingiustizie razziali negli Stati Uniti. Nelle lettere tra Baldwin e Avedon si percepisce che il fotografo cercava unasperanza. Una delle immagini più significative del libro ritrae una spiaggia segregata dove, eccezionalmente, le coppie miste potevano nuotare insieme. Volevamo mostrare come il suo lavoro di reportage si colleghi, anche quando tratta temi e contesti diversi».
Qual è stata la parte più difficile nell’allestire questa mostra?
«Senza dubbio, la selezione delle immagini. Possiamo esporre solo le stampe che Avedon stesso aveva scelto in vita. Non possiamo ristampare fotografie postume. Il nostro lavoro è stato quello di individuare le connessioni tra gli scatti già esistenti e, per farlo, ci abbiamo impiegato, circa, un anno. Questa mostra ci ha permesso di far emergere un lato meno conosciuto di Avedon. Molti lo associano esclusivamente alla fotografia di moda o ai ritratti, ma pochi conoscono il suo lavoro di reportage. Qui vogliamo dimostrare che un filo conduttore lega tutta la sua opera, dall’inizio alla fine della sua carriera.
All’interno della serie italiana, ad esempio, ci sono diversi sottogruppi. Uno dei più significativi riguarda Zazi».
Chi era Zazi?
«Una vedova, un’artista di strada il cui marito era morto in guerra. Nonostante il dolore, riusciva a portare gioia alla comunità. Avedon era affascinato da questa energia contrastante. La danzatrice di strada e la realtà dell’Italia devastata si intrecciano nelle sue immagini. Di questa serie, realizzata in 14 edizioni, ne abbiamo selezionate alcune per rappresentare al meglio quel corpo di lavoro».
Avete accostato Zazi a Nureyev. Perché?
«Per enfatizzare il tema della danza e della libertà espressiva. Pensiamo all’immagine di Rudolf Nureyev che si spoglia completamente dopo essere fuggito dalla Russia: un atto di liberazione. Allo stesso modo, in mostra ci sono scatti strazianti che Avedon inizialmente si rifiutò di pubblicare, come quelli del Vietnam. Solo negli anni Novanta decise di riprenderli in considerazione».
Perché cambiò idea?
«Trovava le immagini troppo belle per rappresentare il dolore e la devastazione. Ma nelle giustapposizioni che abbiamo creato emerge proprio questo contrasto: il momento in cui la maschera cade e lo sguardo svela una profondità emotiva inaspettata. Questo è il cuore del lavoro di Avedon».