Robinson, 6 aprile 2025
Thomas Schütte: “Combatto con l’arte”
Thomas Schütte parla lentamente, una sigaretta dietro l’altra, sulla torre di Punta della Dogana, a Venezia. Il vento soffia forte, ma la necessità di fumare di più, quindi meglio restare fuori. E l’artista tedesco settantenne, inafferrabile, non certo una star da intervista, si lascia finalmente andare. L’occasione è data dalla sua imponente retrospettiva. La prima in Italia, nonostante un Leone d’oro alla Biennale nel 2005, che segue subito quella al MoMA di New York, conclusasi a gennaio. «La stampa americana non aveva parole per raccontarla – commenta lui – se ne sono occupati giusto verso la chiusura». Tra le sale che affacciano sulla laguna, si dispiega tutto il mondo di Schütte, che è un continuo corpo a corpo con la materia, con scale e mezzi diversi: scultura – una cinquantina di pezzi arrivano dalla collezione del padrone di casa, François Pinault – pittura, disegno, acquerello, statuine di cera, incisioni: a centinaia. Il La è dato da Mutter Erde, la statua di una grande madre che accoglie il visitatore all’esterno: «È appena stata installata. Non ho ancora capito se gli occhi che si devono illuminare di notte lo faranno».
Vater Staat, il modello maschile, è imprigionato dentro, nel torrino.
Ogni opera fa da contrappunto e rima con l’altra: insieme formanoGenealogies (a cura di Jean-Marie Gallais e Camille Morineau, catalogo Marsilio Arte): un’orchestra di archetipi che èanche una lunga autobiografia in forma d’arte dell’ex ragazzo di Oldenburg che ha fatto di tutto per non diventare un brand e che ancora combatte i suoi demoni.
Schütte, tutte queste opere insieme sembrano raccontare una storia. Che cosa raccontano?
«Che sono ancora vivo. Che mi fido della materia. Mi fido degli strumenti che utilizzo con le mie mani. Sono troppo nervoso per guidare: ho bisogno di un autista.
Non digito messaggi. Ma l’arte sì.
Ho sempre un quaderno da disegno, parte tutto da lì. La vera sfida è catturare la realtà disegnando. Quest’estate ci riproverò, poi vedo Matisse e penso: oddio».
Guardando le sue sculture, si capisce che insegue ancora un’idea di monumentalità. I monumenti sono stati sotto processo in questi anni. Prima abbattuti con la cancel culture, ora in via di rinascita, almeno nell’estetica trumpiana che con l’intelligenza artificiale elabora una statua d’oro di Donald Trump a Gaza.
«I miei sono monumenti al fallimento, non statue alla MickeyMouse. Trump è un Godzilla che colpisce e abbatte tutto quello che gli capita a tiro. Ma è anche un genio della comunicazione, visto che gli stanno tutti dietro, qualsiasi cosa dica. A me interessa portare vita, non distruggere.
Piccolo, grande, non importa. Le dimensioni diverse delle mie opere si equilibrano. Alla fine, è tutto un gioco di bilanciamento».
La serie dei “Mann im Wind” raffigura uomini ciclopici che affondano i piedi nel basamento…
«Appunto, la fragilità. Sono figure immobilizzate, per nulla eroiche.
Sono stato ispirato dal film Stalker,amo il cinema di Andrej Tarkovskij. In fondo, lavoro come un filmmaker senza telecamera.
Questo è il mio film, a volte c’è illieto fine, altre un finale aperto.
Potrei chiamare per nome ogni scultura che faccio».
Questa mostra è molto ambiziosa. Quando faceva il tutto esaurito, il suo amico gallerista e pittore Konrad Fischer diceva: dove abbiamo sbagliato? Lei pensa lo stesso? Non vuole la folla di visitatori?
«No, no, purtroppo ho bisogno delle persone. Vorrei che facessero il giro della mia mostra tre volte, con calma. Deve essere un concerto di almeno un’ora e mezza, non una corsa. Non sono contro gli affari, ma contro il business stupido, contro la brandizzazione dell’arte. Ho settant’anni, potrei ritirarmi, ma sarebbe terribilmente noioso. Ho bisogno di continuare».
Quando parla di brandizzazione
dell’artista, pensa a figure come Damien Hirst?
«Non è il mio genere. Può essere interessante sul piano finanziario. Ma poi, dietro il successo e l’affermazione di un potere, sia esso di Hirst – che ora mi risulta scomparso, comunque – di Trump o di Taylor Swift, c’è sempre un apparato che lavora nell’ombra.
Lamarketing machine non mi interessa».
Ma c’è qualcosa che le interessa oggi nel mondo dell’arte? Frequenta i musei?
«I musei sono come le chiese o gli stadi, posti in cui dimentichi i problemi, ridi, ti emozioni.
Preferisco gli spazi piccoli, in realtà. Non c’è bisogno di luoghi mastodontici. Mi emoziona Murano, dove ogni anno vado per produrre opere di vetro».
Il legame con l’Italia è rappresentato in mostra anche dalle sculture “Fratelli” e da almeno un paio di opere grafiche, tra cui una in cui raffigura via dell’Idroscalo a Ostia, dove fu ucciso Pasolini.
«A sedici anni, scappai di casa per sei settimane. Feci perdere le mie tracce, arrivai a Roma, dormivo a Villa Borghese. Che cos’era Roma, allora… ci sono tornato nel 1992 in piena Mani pulite, quando vinsi la borsa di studio a Villa Massimo. È una città nascosta, nonostante il turismo. Tuttora da scoprire».
Esiste ancora una comunità dell’arte come era quella in cui ha vissuto negli anni Settanta?
«Mario e Marisa Merz mi avevano adottato; così come Jannis Kounellis. Ricordo le cene, le bevute… ero poco più che un ragazzo. Con gli amici che ci sono ancora ogni tanto ci vediamo ai compleanni, stiamo diventando vecchi. Ormai ti domandi che cosa resterà? Vede questo muro? Ogni singolo mattone corrisponde a un lavoro. Ogni edificio a un’idea che ci sopravvive. Venezia è un monumento alla lotta contro la mortalità. Quando hai settant’anni, ci devi pensare».
I grandi vecchi tedeschi Anselm Kiefer e Wim Wenders hanno dieci anni più di lei…
«Sono contento che da giovane Wenders e Herzog non mi abbiamo preso alla Film Academy tedesca. Non voglio essere offensivo, va’…».
Lasciamo stare, allora. Però così è diventato artista, non regista di cinema.
«L’arte è la sola strada. L’ho capito visitando la Documenta del 1972, curata da Harald Szeemann. Il minimalismo, l’art brut, il fotorealismo, Joseph Beuys… ho compreso che quel mondo era il mio».
Alla fine a che cosa serve l’arte, Schütte?
«A procurare un piacere a lungo termine».