Tuttolibri, 5 aprile 2025
Intervista a Fabrizio Ferri
Il caso è la mano di Dio. Chiamalo fato oppure destino, è quell’evento che si frappone tra te e la vita, sconvolgendo i tuoi disegni. Ineludibile e ineluttabile. Gioia o sciagura. Per Fabrizio Ferri è una coazione a ripetere di interferenze significanti. Anche il suo mémoire autobiografico (e chi ha più memorie di lui batta un colpo e chi ha più memorie fotografiche di lui ne batta un altro) dal titolo aperto Fin qui edito da Rizzoli, lui non sapeva di doverlo scrivere. Invece lo ha fatto, mantenendo integro il suo stile, l’eccezionalità buttata lì con nonchalance, l’understatement di chi è avvezzo al superlativo e fa della curiosità il suo unico stupore. Modesto per distrazione, ha scritto un libro semplice e complesso, curioso e diretto, dalla forma linguistica naturalmente forbita, da professionista della letteratura. Una storia che va oltre la dimensione fotografica per farsi affresco di un vissuto straordinario, fin qui affascinante e poliedrico. Il libro, lo ha presentato a Milano a Palazzo Reale alla presenza di Susan Sarandon. L’attrice è fra i protagonisti di Breathtaking un’installazione ideata da Ferri come riflessione sull’effetto devastante delle plastiche e delle microplastiche negli oceani, che evidenzia la stretta correlazione tra l’inquinamento dei mari e le conseguenze letali per la nostra vita, allestita al Museo di Storia Naturale fino al 27 aprile.
Ferri, la prima fatalità significante?
«Avevo 17 anni, storico liceo Righi di Roma. Un mio compagno di scuola mi chiede di fare delle foto il Primo Maggio alla manifestazione a San Giovanni. Ma io macchine fotografiche non ne ho. Mi presta una Contax ma io non la so usare. Vado lo stesso e tra la folla vedo un fotografo professionista. Gli chiedo aiuto, mi guarda male però me la imposta, mi dice di non toccare nulla, di scattare e basta. Si allontana ironico: “Buona fortuna!”. Io non so che fotografare. Mi faccio avanti, sul palco parla Luciano Lama. Mi guardo intorno e vedo un contadino, ha la faccia segnata dal sole. Sulle spalle un bambino stanco che ha poggiato la testa su quella del padre. A fianco la madre e anche lei sfiora col capo la spalla di lui. Fermi, attenti. Un trittico pazzesco. Scatto. Avevo fatto la foto di un’emozione che poi è stata la cifra di tutta la mia vita».
La mano di Dio?
«La chiami come crede ma non è tutto. La foto finisce in camera da pranzo e un giornalista di Paese Sera, amico dei miei genitori, la guarda e mi dice, “Me la vendi?” Incredulo, dico di sì e mi metto in tasca 50 lire. Non ho più smesso di scattare per condividere. Era il 1° maggio del 1969».
Dunque, niente emozione, niente scatto?
«Anzi, senza emozioni sei tu che le devi creare, sei tu che devi generare quella magia fondamentale per arrivare agli altri».
Scrivere è un’altra cosa...
«Non è vero, la fotografia è una scrittura con la luce. Ho riempito pagine come un fiume in piena, senza quasi mai riscrivere. Non ho mai pensato al valore letterario ma tra queste pagine c’è quanto di più sincero abbia mai fatto».
Argomenti che ha evitato?
«In trecento pagine non trova una sola riga su mogli e figli. Ci sono dei semafori davanti ai quali mi sono fermato. Nonostante in queste pagine ci sia moltissimo della mia intimità. Ho mantenuto rapporti buoni con loro che significa anche difficili. Scrivere senza contraddittorio non mi piace. Quando ci si sofferma si sceglie è quel che è fuori resta fuori. Non esiste che sia tutto fotografato. Ho voluto evitare la superficialità. Proteggo vite che sembrano altro e vite che sono di altri. Compare solo Geraldina, mia moglie, perché mi ha accompagnato».
Ferri, perché poi ha fotografato il mondo della moda, frivolo, mondano, esteriore?
«Proprio perché così non è. Ho sempre pensato che il mondo della moda sia serissimo. Come negli altri mondi ci sono aspetti di futilità ma sono poco significativi. Basta seguire le proprie regole: mai andato a feste, mai in un locale e mai con una modella a cena. Nessuno sa dove andavo, quando andavo via».
Però non è del tutto vero... quella volta con Cindy Crawford?
«Aneddoto tipico che descrive la mia ingenuità. Cindy mi offre un passaggio dal deserto in California, dove lavoravamo per un servizio fotografico, a Los Angeles. Guida lei. A un certo punto mi dice: “Ho voglia di fare un massaggio coreano. Vieni con me?”. Io divento paonazzo perché dentro di me mi ero fatto un film. Arriviamo in un posto stranissimo con la scritta “uomini” e “donne”. Lei mi saluta con la manina e va per la sua entrata. Fine del film».
Il pensiero lubrico c’era allora?
«Ma non sapevo neanche io... comunque vado. Sono pudico, odio stare nudo, per coprirmi avevo solo la chiave dello spogliatoio. Mi dico: “Meno male che non conosco nessuno”. Non faccio a tempo a pensarlo che vedo un mio vecchio assistente che mi saluta e ridacchia complice. Volevo sotterrarmi».
Certo che le è successo di tutto, ha guardato negli occhi un cobra, in una barca a fuoco circondato da pescicani, ha affrontato dei pistoleri con la macchina fotografica. Ma il momento più duro della sua vita?
«La morte dei miei genitori. La mia infanzia è stata forte perché c’erano loro».
Diciamo che non erano genitori qualsiasi, due intellettuali, lei era cugino di Giuliano e di Giorgio Ferrara, per casa sua passavano grandi personaggi della politica e della Cultura.
«A questo proposito, ricordo che c’era una coppia francese che li veniva a trovare, ero ragazzino ma avevo capito che erano due filosofi o qualcosa di simile. Lei parlava fitto con mia madre, lui con mio padre. Lui aveva una passione sfrenata per la coppa gelato Olimpia. Un trionfo di panna e di golosità. Io me lo caricavo in Lambretta e lo portavo fino al Parlamento dove stava il gelataio e lui era felicissimo. Non parlava italiano e io non parlavo francese ma ci capivano. Scoprii più tardi che lui era Jean-Paul Sarte e che lei era Simone de Beauvoir. Sono certo che noi siamo il prodotto delle circostanze della nostra vita».
Tornasse indietro?
«Non darei retta a dei mascalzoni che hanno rovinato la mia vita imprenditoriale. È stato doloroso raccontarlo. Mi è costato esserci ma non potevo farne a meno».
Lei scrive musica, fa mostre, ha appena inaugurato a Milano “Breathtaking”, installazione curata con sua moglie Geraldina Polverelli Ferri, 11 foto di volti asfissiati dalla plastica. Tra i protagonisti di questo “silenzio” come suggerito da Marina Abramovic, ci sono Isabella Rossellini, Carolyn Murphy Naomi Watts, Charlotte Gainsbourg, Helena Christensen, unico uomo, Willem Dafoe. Ma che altro vuole fare?
«Aprire altre porte, foto che hanno fini differenti, voglio comunicare contenuti importanti. La fotografia come forma d’arte. Sento una grande differenza tra una foto frutto di committenza e una che arriva da una necessità espressiva. Ecco quello che voglio. Dare senso al mio lavoro».