Tuttolibri, 5 aprile 2025
"Tutto su mio padre, che trasformò la decadenza in una favola di famiglia"
Articolo pubblicato il 4 luglio 1987 su Tuttolibri
Il nostro secolo non ha avuto in serbo letti di rose per l’aristocrazia siciliana e la vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa può da tal punto di vista dirsi emblematica. Essa era nata sotto il segno della decadenza. Fastidi ad ogni passo, salvo nell’Infanzia, rimasta per il principe l’età dell’oro. I luoghi della mia prima infanzia narrano di questi mondi fiabeschi ed incontaminati, prima che gli eventi della vita, la crisi economica della classe dirigente siciliana li facessero scomparire uno dopo l’altro. Li ritroveremo tutti nell’opera letteraria: il palazzo di Lampedusa a Palermo, la villa Cutò a Bagheria e il palazzo Filangeri a Santa Margherita Belice. Siamo nel 1943 e scompare sotto le bombe il palazzo di Lampedusa, ultimo luogo amato rimasto proprietà della famiglia: nel 1949 muore Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, madre dello scrittore e memoria connessa indissolubilmente a quei luoghi, a Santa Margherita e alla Villa di Bagheria, proprietà dei Cutò. Lampedusa è ormai solo con due poli di riferimento in cui si raccolgono gli affetti: i cugini Piccolo a Capo d’Orlando che subentrano come testimoni del rango materno, delle «cose» materne, oggetti, paesaggi, luoghi, cibi prelibati di una cucina internazionale sicilianizzata, e la moglie Alessandra (Licy) Wolff Stomersee, utopia di un matrimonio fra eletti in senso intellettuale, una unione fra quanto di meglio, sotto il profilo della genetica culturale, potesse sortire dall’aristocrazia europea.
Il mondo materno, a cui va il suo cuore, è ampliato dall’incontro con chi scrive, che si trasforma in vero affetto attorno al 1954. Francesco Orlando, in verità ben più discepolo di Lampedusa di quanto non lo fossi io, ha descritto nel suo Ricordo di Lampedusa quanto ebbe a verificarsi: «Praticando con la sua stessa spigliatezza l’arte dei sottintesi, ironizzando con elegante distacco su tutto, Gioacchino era capace di divertire in sommo grado Lampedusa; “e nelle persone del carattere e della classe di Don Fabrizio – dice il testo del Gattopardo – la facoltà di essere divertiti costituisce i quattro quinti dell’affetto”. L’altro quinto era affetto ancora più autentico ma che non aveva mai il cattivo gusto, né da una parte né dall’altra, di manifestarsi in modo serio».
Di fatto sull’inizio degli Anni 50 il principe abbattuto da crisi di identità – la scomparsa di un universo amato, le cui sopravvivenze si esternavano soltanto in «fastidi» (termine gattopardesco) – decise di ricostruirne un altro a sua immagine e somiglianza. Il mondo materno, quello di una infanzia dorata poteva e doveva esser riesumato. Quel che testimonia in particolare una lettera ad un amico lontano, Guido Lajolo, una antica conoscenza di Lampedusa degli Anni Venti, emigrato successivamente in Brasile. Nel 1855 ecco il principe farsi vivo dopo una lungo silenzio: «Carissimo Guido (...) sono accaduti (o per meglio dire sono sul punto di accadere) due fatti importantissimi: 1 – ho scritto un romanzo, 2 – stiamo per adottare un figlio. Comincio dal primo e meno importante evento, io non ho cugini da parte paterna, intendo dire cugini in primo grado. Ne ho invece tre da parte materna. Da un paio di anni in questi miei tre cugini si è risvegliata una violenta attività artistica; uno si è messo a fare delle acqueforti, ed in mostre a Roma e Milano ha avuto larghi successi di pubblico e di critica; un altro che aveva dipinto tutta la vita da dilettante, a sessant’anni passati ha messo su una mostra personale, ha venduto i suoi quadri in una settimana ed è proclamato grande artista; il terzo (il più giovane ma che ha cinquantatré anni) ha fatto stampare un volumetto di versi; ne ha inviato una copia al terribile Eugenio Montale e, a giro di posta, ha ricevuto una lettera che lo proclamava un genio, ha ricevuto un premio letterario a S. Pellegrino, e le sue poesie saranno pubblicate il mese prossimo da Mondadori con prefazione di Montale; interviste sui giornali, fotografia su “Epoca” (luglio ’54). Un’iradiddio. (Compra il volume quando uscirà: Lucio Piccolo, Canti Barocchi). Benché io voglia molto bene a questi cugini (specie ai due ultimi) debbo confessare che mi sono sentito pungere sul vivo: avevo la certezza matematica di non essere più fesso di loro. Cosicché mi son seduto a tavolino ed ho scritto un romanzo; per meglio dire tre lunghe novelle collegate tra loro...».
Il fatto più singolare di questa lettera è che le informazioni fornite all’antico amico non sono veritiere. Profittando della distanza spaziale fra la Sicilia ed il Brasile Lampedusa si serve dell’occasionale corrispondente per una proiezione di desiderio. Il mondo descritto è molto più bello di quello che in realtà non sia, cioè la lettera traspone le speranze in realtà secondo archetipi caratteristici dell’epica favolistica. Ciò è specialmente evidente nella seconda parte della lettera (quella riguardante me) e che l’autore definisce «la più importante», ma anche nel passo riportato le trasportazioni epiche sono macroscopiche ed in evidente contrasto con la realtà.
Se indubbia risulta infatti la notorietà pubblica del cugino Lucio, che con la pubblicazione dei Canti Barocchi entra nel panorama letterario italiano, la grandezza artistica dei cugini presi in blocco è frutto fantastico di una ricostruzione della realtà attraverso la quale si rende possibile una riconciliazione con le speranze del passato, si cancella la sconfitta, si leniscono le sofferenze patite. Ed ancor più questo si può osservare nella seconda parte della lettera a Lajolo, quella relativa alla paternità adottiva. Il prescelto è semplicemente adorato assieme alla sua fidanzata, Mirella Radice, ed attorno alla coppia viene costruito un romanzo familiare di lodi e di speranze, partendo da dati di fatto che qualsiasi palermitano del tempo avrebbe potuto smentire.
Il problema autobiografico del Gattopardo va a mio avviso connesso a quanto si rivela nella lettera a Lajolo. Ed abbiamo allora un esempio di autobiografia del lutto particolare, come particolare è l’emergere di una vocazione letteraria a 54 anni.
Se la Verità cede il passo alla Poesia, le ragioni del mascheramento saranno soprattutto di ordine emotivo.
Poesia e Verità, l’autobiografia goethiana a cui mi riferisco, operava infatti nel senso di una cristallizzazione sublimata dalle passioni. Era questa la soluzione goethiana per eccellenza: superare il conflitto interno delle passioni ricorrendo ad una loro cristallizzazione formale. Era questa la vittoria dell’intelletto, dell’universale sul contingente ed il particolare. Ammiratore dell’Erklärung il nostro principe siciliano aveva però ben altri problemi da risolvere. La vita aveva promesso inizialmente molto e mantenuto poco. Le occasioni di realizzazione personale erano affondate nel gorgo della realtà siciliana fra le due guerre. Conflitti incandescenti avevano scosso la sua vita privata. Egli si era trovato spesso fra due fuochi, fra l’amore della madre e per la madre ed il matrimonio costruito sull’incontro fra due intelligenze e culture superiori.
Ma avendo deciso poco dopo i cinquantanni di uscire dalla minore età Lampedusa si affidò ad una ipotesi storica che non aveva potuto ghermire. Di qui la costruzione del romanzo di famiglia quale favola personale della propria famiglia, in cui i sogni di desiderio sono liberi di intessere trame di passioni appagate. Nell’opera letteraria si sarebbe attuata l’utopia consentita: una vita degna di esser vissuta, fatta di possesso dignità erotismo, un distacco dal male contemporaneo e dalla bassezza dei più, cioè dagli altri, la plebe avida, che aveva invaso e schiacciato lo spazio riservato agli eletti, ed infine sarebbe giunta la morte, ma col garbo biologico, liberatorio, che il singolo merita dopo aver adempiuto ai propri doveri verso la specie.
Quando il Gattopardo gli fu finalmente davanti Lampedusa non ebbe dubbi sulla sua opera e da artista e da uomo. Come artista lo soccorreva una immensa esperienza di fruitore, la profonda analisi applicata nella rilettura di alcuni classici, in particolare Shakespeare, Stendhal, Proust, Balzac, oggetto di lettura assidua nei primi Anni Cinquanta. Come uomo sapeva di aver risolto nel romanzo il proprio problema esistenziale, sapeva di aver riacquistato attraverso il romanzo una identità che gli appariva per l’innanzi sfuggente. Ma quanti vi avrebbero creduto? Non i siciliani del suo ceto. Si dice che in Sicilia i morti siano più morti che altrove. Certo nessuno ne desiderava il ritorno e il Gattopardo sapeva di effimera resurrezione. E per la società palermitana non si trattava soltanto della resurrezione di un principe decaduto, ma del rimettere in circolazione vecchie storie con il loro carico di sofferenze e di rancori.
I gattopardi, i loro palazzi ed i feudi erano scomparsi definitivamente sotto le bombe, quanto ne restava aveva il suo da fare a districarsi fra riforma agraria, imposte di successione e imposta progressiva sul patrimonio. Ed ancor più, il libro ripercorreva i sottili dolori della distinzione di classe. Ogni frase trasudava senso di classe, rancori fra nobiltà vecchia e nuova, confronti con la borghesia emergente, cui si dava dello sciacallo e della iena.
Ma il fatto su cui occorre riflettere è che la rivincita del romanzo provenne dal basso, cioè da una massa di lettori in continuo, addirittura esplosivo aumento. Se ogni lettore riusciva ad identificarsi nel principe e nessun plebeo si sentì offeso dalle ingiurie rivolte alla borghesia siciliana emergente, ciò significava che il processo di decantazione del desiderio attuato dal romanzo colpiva ampi strati della popolazione. Indifferentemente dalla classe di appartenenza. Anche la vedova Lampedusa – essa vegliava sulla fama letteraria del marito con spirito battagliero – temeva che l’ostentato senso di classe che circola nel romanzo avrebbe suscitato reazioni ostili.
Ed avvenne allora qualcosa di inatteso. Tutti i lettori avrebbero voluto possedere la preveggenza del principe di Salina, la sua saggezza, il suo distacco. Questo innocente romanzo storico aveva distrutto il mito del Risorgimento, come Le mie Prigioni l’aveva costruito. Nessuno si scandalizzò più a parlare di una unità d’Italia fallita. E se questo avveniva sul piano della interpretazione politica, nel privato l’ancien régime di Lampedusa apparve a molti come l’età dell’oro. Lampedusa che detestava il melodramma aveva col suo libro raggiunto invece un risultato affine, un consenso nazionale attorno ad un modo di vivere irricostruibile e che nella verità storica non era neppure esistito. Una miscela di saggezza e di ingenuità aveva fatto del principe di Salina un eroe nazionale ed in breve internazionale.
Umile, scritto in un linguaggio che propende al vernacolo più che al letterario, in punta di piedi, ingenuo a tratti per l’oleografia della trama, il Gattopardo ha ritrovato il filo del romanzo della fuga, della narrativa occidentale che canta la grande evasione, dal Don Quijote in poi. E la sprezzante definizione di Contini «un Proust popolarizzato» è al tempo stesso la garanzia del suo successo. Chi vuol trovare un modello di vita nostalgicamente e appagantemente eroica, chi per dirla con le parole di Lampedusa, dello sforzo quotidiano che la civiltà contemporanea esige da ciascuno di noi «non ne può proprio più» (l’invito al suicidio in Lighea) ha trovato nel Gattopardo un riscontro al proprio stato d’animo.
La vocazione letteraria era giunta tardiva e quale soluzione al problema della vita, era stata una soluzione del terribile quesito della propria identità ed al tempo stesso una soluzione che aveva incredibilmente abbreviato i tempi del tirocinio artistico, della ricerca di una identità stilistica. In tale quadro il Gattopardo si pone quale ultimo frutto di una cultura del trapasso, tardivo perché nato in Sicilia, dove appunto il trapasso è ancora in corso ed è tremendamente tardivo.
Il Gattopardo è il Lindenbaum della Sicilia pre autonomia siciliana, della Sicilia che muore sotto l’esplosivo della seconda Guerra Mondiale per non più risorgere. Il Lied è presente nella discoteca di Hans Castorp, rinchiuso ormai da anni nel suo Zauberberg. E Mann ci spiega quel che esso è e quel che esso significhi per il suo fruitore. «Un oggetto spiritualmente importante, significativo, è appunto significativo in quanto esso accenna a mondi che si estendono oltre di lui, in quanto è al tempo stesso espressione e rappresentante di una spiritualità comune di un universo di sentimenti e pensieri che ha trovato in esso una sua completa immagine spirituale, ed è da questa immagine che noi possiamo misurarne il grado di significato».
E come il Lied di Schubert ci parla di un tempo felice, distante eppur sentimentalmente presente, con la consapevolezza di un uomo e di una generazione che sa, così Giuseppe Tomasi sa che le vigne di cui parla sono sparite con il loro vino, ma sa anche che l’emozione della sua trenodia è il solo mezzo con cui la favola dei campi opimi potrà durare nella rimembranza.
Morì pochi mesi dopo, il 23 luglio 1957, con il manoscritto sul comodino, a fianco.