Tuttolibri, 5 aprile 2025
"Dietro la sua prosa festaiola la voglia di essere popolare"
È interessante interrogarsi sul lavoro, ma anche sulla figura personale, di Francis Scott Fitzgerald a centoventinove anni dalla sua nascita, ottantacinque dalla sua morte, e cento anni esatti dalla prima pubblicazione del suo capolavoro assoluto, Il grande Gatsby. Si rischia di arrivare a conclusioni per niente scontate. Gatsby è passato alla maggior parte della storia e della critica come un romanzo “leggero” – virgolette d’obbligo trattandosi di un caposaldo della letteratura americana; ma poi, chi ha detto che i capisaldi non possano essere leggeri? Fitzgerald è stato accusato di elitismo, di esaltazione dell’ostentazione, di fascinazione per un mondo del quale aspirava a fare parte, quello dei ricchi e dei potenti, festaioli superficiali e impuniti che oggi conosciamo anche troppo bene. E alla fine, è tutto sbagliato.
L’americanista e traduttrice Sara Antonelli ha scritto di Fitzgerald per Feltrinelli, non esattamente una biografia, ma una storia della sua vita attraverso la sua letteratura. Si intitola Domani correremo più forte e cita proprio le ultime frasi di Gatsby, con quel futuro che se ne va all’orizzonte e la necessità di inseguirlo. Un po’ come il sol dell’avvenire, in altri ambiti e altri contesti, sorprendentemente non così distanti.
Cosa è rimasto di Fitzgerald?
«Il segno. Il grande Gatsby in particolare ha lasciato, a partire da subito, segni del proprio passaggio in tutta la letteratura a venire. Secondo me è questa l’eredità più importante per le generazioni letterarie che lo hanno seguito. E questo segno sta in una straordinaria pulizia della prosa e in un utilizzo precisissimo della lingua parlata».
Sembrano due elementi in contrasto…
«Prima di Fitzgerald lo sarebbero stati, perché la lingua della letteratura era qualcos’altro. Ma lui è stato in grado di rendere il modo di parlare e di esprimersi intelligibile per i lettori senza rinunciare allo stile letterario. Faceva un lavoro sotterraneo di revisione della lingua impercettibile nella lettura: non si avverte mai la stanchezza dello sforzo estetico. Questa è una caratteristica che raramente si trova in letteratura americana».
Anche tra i suoi eredi?
«Mi domando se ne abbia. Da qualche anno e con qualche dovuta eccezione (penso a Catherine Lacey, per esempio) la letteratura americana ha paura di sperimentare, di uscire dai binari e di cercare nuove forme e nuove espressioni».
Come mai?
«Le scuole di scrittura hanno indubbiamente appiattito lo scenario, ma forse anche la ricerca ossessiva della storia minoritaria, del caso che vada oltre la narrativa. Siamo molto più attenti al messaggio sociale e ci perdiamo la spontaneità letteraria».
Fitzgerald era uno scrittore spontaneo?
«Forse il contrario. Il suo processo creativo era piuttosto complesso: prima batteva a macchina il testo con spaziatura tripla tra le righe per le revisioni; poi lo rivedeva diverse volte, e solo quando ne aveva una versione convincente lo rileggeva ad alta voce per verificare che suonasse bene. Era uno scrittore estremamente puntiglioso, eppure aveva trovato il modo di far funzionare questa sua caratteristica per riprodurre la spontaneità della quale aveva bisogno».
Aveva trovato il ritmo…
«Al Grande Gatsby si potrebbero tranquillamente togliere le parti descrittive – che sono fondamentali ai fini della lettura, naturalmente – e mantenere solamente i dialoghi e si avrebbe una perfetta trasposizione teatrale. È come se avesse sempre scritto per la scena e non ce ne fossimo mai accorti».
Lo hanno accusato di superficialità…
«Se uno scrittore del suo calibro non venisse accusato, forse avrebbe sbagliato qualcosa. Fitzgerald era tutt’altro che superficiale: i suoi romanzi sono infarciti di nozioni sottili. Aveva delle idee e voleva esprimerle, ma aveva anche intuito che la forma doveva essere perfetta. Nel Grande Gatsby, per esempio, c’è il colonialismo conradiano, ed emerge solo a una lettura attenta e precisa, ma una volta individuato non si può più ignorare. C’è Alexis de Tocqueville, c’è la sociologia politica, la lotta di classe, ma il messaggio è portato con un’intelligenza e con una leggerezza che non lasciano mai trapelare né fervore fuori luogo, né urgenza di apparire colto».
Perché non portare questi temi allo scoperto?
«Perché altrimenti i suoi romanzi non sarebbero arrivati alla maggioranza del pubblico. Fitzgerald era un romanziere e per vivere scriveva racconti. Prendere la strada della saggistica sociale o politica non era probabilmente qualcosa che potesse interessargli. Leggendo i suoi scritti privati, però, tutti questi temi emergono molto chiaramente».
Credeva nel romanzo?
«Immensamente. Credeva nell’estetica della narrativa. Quante volte si è detto, in letteratura americana, che il romanzo era una forma morta? Ecco, lui non ci ha mai creduto e lo ha sempre utilizzato come mezzo principale per esprimersi».
Lo si dice anche adesso…
«Eppure, a cent’anni dalla prima pubblicazione del Grande Gatsby ne stiamo ancora parlando e lo facciamo come di un capolavoro, non qualcosa di dimenticabile».
È rilevante per i lettori di oggi?
«È fondamentale: mostra senza alcun tipo di edulcorazione il capitalismo in tutta la sua brutalità e letto di questi tempi è basilare. Il fatto che alla fine di Gatsby Tom e Daisy Buchanan la facciano franca, che la ricchezza paghi, è straordinariamente speculare a quello che vediamo succedere tutti i giorni alla corte di Donald Trump. E anche questo è un tema che a Fitzgerald è sempre stato caro, nonostante tutte le critiche».
Ad esempio?
«Di essere un elitista. Dopo la prima pubblicazione, la sensazione, alimentata dal suo amico Ernest Hemingway, era che fosse un romanzo di esaltazione dello status sociale, quando invece mette in luce la decadenza e i lati grotteschi dell’arrivismo e dell’ostentazione. I ricchi erano la cosa che più al mondo faceva infuriare Fitzgerald: la loro impunità, la violenza del capitale».
Era l’opposto di un elitista, insomma…
«Ha cominciato a leggere Karl Marx prima di compiere trent’anni e fino alla fine si è definito marxista, anche se non ha mai aderito al Partito comunista statunitense».
«Non amava il modo in cui trattavano i neri. I comunisti americani sono sempre stati legati a una forma di socialismo molto derivativo del classismo sovietico. Fitzgerald promuoveva la libertà e l’uguaglianza in tutte le sue forme e senza eccezioni».
Non lo abbiamo mai capito?
«Lo abbiamo capito in parte. È ingiustamente passato ai posteri come l’autore di romanzi frivoli, ma la critica si è sempre accorta della sua anima profonda. Alberto Arbasino, leggendo le lettere, scriveva: “Abbiamo sempre pensato scrivesse romanzi un po’ scemini, e invece era un rivoluzionario". Di certo non è un autore per il quale ci si può limitare a una lettura superficiale. Il livello della sua prosa era talmente elegante, rarefatto, festaiolo, che confondeva le acque. Forse riteneva che lo stesso esporsi lo avrebbe sottratto al pubblico o lo avrebbe reso difficile, mentre lui voleva essere popolare».
Lo è stato…
«E infatti siamo ancora qui a parlarne».