il manifesto, 6 aprile 2025
Groenlandia, terra di avide conquiste
L’arroganza imperiale di Trump ha riportato in primo piano un «pezzo d’Europa» rimosso dal senso comune europeo fino a qualche mese fa. Tornare sulla vicenda coloniale della Groenlandia appare importante in un continente che fatica ancora a riconoscere il sangue coloniale da cui è originato il proprio Dna. Situata a venti chilometri dal Canada, cinquanta volte più grande della Danimarca, e con un territorio costiero libero di ghiaccio o comunque «abitabile» esteso quanto la Germania, la Groenlandia, di soli cinquantasettemila abitanti, è dal 2009 un territorio «semi-autonomo» danese. Pur avendo ottenuto uno statuto di autonomia, la Danimarca resta sovrana sull’isola su politica estera, finanza, sicurezza e accordi internazionali.
POPOLATA in maggioranza (85%) da discendenti di diversi gruppi Inuit, giunti nell’isola dallo Stretto di Bering e dall’America del Nord con diverse ondate migratorie iniziate 4500 anni fa, i danesi rappresentano soltanto il 15% dei suoi abitanti, anche se resta difficile parlare in termini di percentuali «etniche» assolute, data l’ovvia mescolanza storica, mentre quindicimila groenlandesi vivono oggi in Danimarca. Dopo diverse spedizioni precedenti fallite, la colonizzazione danese comincia nel 1721, e non ottocento anni fa, come affermato al parlamento europeo dal sovranista dei «Patrioti per l’Europa» Anders Vistisen, che forse includeva in modo del tutto «soggettivo» i primi insediamenti dei vichinghi iniziati nel X secolo ai tempi di Erik il Rosso, provenienti quindi dall’Islanda e non dalla Danimarca, e poi estintisi intorno al XV.
Il governo coloniale della Danimarca comincia dunque con una spedizione del tutto «classica», organizzata da una compagnia mercantile norvegese e da un sacerdote luterano, Hans Edge, che vi stabilisce un avamposto missionario e commerciale. È così che inizia un vero e proprio dominio coloniale, incentrato sullo sfruttamento della pesca, foche e balene, sulla caccia all’avorio delle zanne dei trichechi, sull’estrazione mineraria e sull’insediamento delle prime colonie di danesi.
La storia del colonialismo danese è assai significativa, benché poco nota all’estero. E anche nella stessa storia nazionale la sua centralità è stata riconosciuta solo di recente, non senza resistenze, e in buona parte grazie alle lotte antirazziste dei migranti razzializzati di seconda generazione e alla penetrazione degli studi postcoloniali nel paese. Un importante spartiacque nella decolonizzazione del senso comune coloniale-nazionale, e non solo in Danimarca, è stata la mostra internazionale Rethinking Nordic Colonialism: A Postcolonial Exhibition Project in Five Acts del 2006.
A RAFFORZARE questa amnesia nazionale sul passato coloniale è stata, come del resto in altri paesi europei, la narrazione di un eccezionalismo scandinavo riguardo il proprio coinvolgimento nella storia coloniale. Anche qui abbiamo un altro «colonialismo dal volto umano» e dalla storia assai «modesta» paragonata ad altre. E tuttavia benché ridotta nelle sue dimensioni temporali e spaziali, l’espansione coloniale danese-norvegese (fino al 1814 sono stati unificati) ebbe un ruolo di primo piano nella formazione culturale e soprattutto economica del paese, rendendo Copenhagen una città ricca e governata da una prospera borghesia mercantile.
LA PRIMA SPEDIZIONE coloniale danese avviene nel 1612 nell’India meridionale, con lo stabilimento di un avamposto commerciale nell’attuale Sri Lanka, noto ancora oggi come Trankebar. Il regno di Danimarca-Norvegia ebbe inoltre un ruolo importante nella tratta transatlantica di schiavi attraverso i suoi insediamenti coloniali nelle coste del Ghana e soprattutto nelle isole caraibiche di St. Thomas e St. John, note anche come Virgin Islands. Tra il 1660 e il 1803 il regno scandinavo ha trasportato dall’Africa ai Caraibi centodiecimila schiavi. Nel 2018, in memoria di questo passato coloniale e in occasione del centenario della vendita di queste isole agli Stati Uniti, le artiste La Vaughn Belle, delle Virgin Islands, e Jeannette Ehlers, danese, hanno creato il primo monumento pubblico nazionale dedicato a una donna nera. La loro scultura, I Am Queen Mary, piazzata davanti a un ex magazzino coloniale di Copenhagen, rappresenta Mary Thomas, leader della rivolta sindacale «Fireburn» del 1878 a St. Croix, ex colonia danese.
TRA IL XVIII E IL XIX secolo verranno annesse al Regno di Danimarca come dipendenze coloniali anche le isole Far Oer e l’Islanda. Ma il XIX segna anche il declino dell’espansione coloniale danese, non più in grado di concorrere con il Regno Unito e la Francia. Il 1953 sancisce la fine dello stato coloniale classico, e così la Danimarca procede all’annessione della Groenlandia mediante un referendum, a cui però non partecipano i groenlandesi. Questa nuova fase si propone di «danizzare» la Groenlandia attraverso un piano sistematico di modernizzazione dell’isola sul modello sociale ed economico di quello della madrepatria. Il progetto può essere considerato come una variante delle politiche coloniali di «assimilazione forzata» o del «colonialismo d’insediamento» che ha caratterizzato altri paesi, come gli Usa, ma soprattutto il Canada e l’Australia, poiché mirato alla cancellazione della cultura locale, ovvero alla sostituzione (razziale) di una forma di vita sociale e culturale con un’altra. Veicolo di «modernizzazione» sono stati non solo gli investimenti privati e statali esteri, l’istruzione scolastica sistematica, la creazione di un sistema sanitario territoriale, la costruzione di nuovi e inediti agglomerati urbani, che hanno imposto agli Inuit di lasciare le loro abitazioni tradizionali, ma soprattutto l’immigrazione di lavoratori danesi. Come altrove, anche qui la politica coloniale di governo si è dispiegata attraverso il ricorso all’immigrazione come dispositivo di bianchizzazione, assimilazione e sostituzione razziale.
IL GOVERNO ha incentivato l’arrivo di lavoratori danesi offrendo loro stipendi più alti di quelli dei «nativi», ma anche cariche e mansioni di maggior rilievo. La politica coloniale si trasforma così in discriminazione e segregazione razziale esplicita e legale, in razzismo strutturale e istituzionale, provocando negli anni sessanta movimenti di protesta anticoloniali e antimperialisti a Copenhagen. Oltre alla segregazione lavorativa e abitativa, all’assimilazione forzata e al trasferimento di una parte importante della popolazione Inuit nei nuovi alloggi urbani, la politica di «danizzazione» della Groenlandia è stata accompagnata da altre pratiche tipiche della violenza sovrana delle politiche del «colonialismo d’insediamento», come la sterilizzazione istituzionale e involontaria di donne native e l’internamento forzato di bambini Inuit in istituti educativi.
NEL 1951 vennero prelevati 22 bambini eschimesi e trasferiti prima in Danimarca e poi in diversi istituti a Nuuk e altre città. Al progetto hanno partecipato anche la Croce Rossa e Save The Children, si veda in proposito il film Esksperimentet (L. Fridberg, 2010). Dopo l’opposizione politica e la resistenza culturale delle popolazioni locali, anche attraverso la crescente proliferazione di studi e ricerche prodotte da studiosi groenlandesi, il processo si conclude nel 1979 con l’abbandono del piano di «modernizzazione» e la concessione di uno stato di semi-autonomia maggiore all’isola: il cosiddetto «Home Rule Act».
Grazie al Home Rule Act, che assegna una maggiore autonomia politica, i groenlandesi, contrariamente alla Danimarca, decidono di lasciare la UE nel 1985, in disaccordo con le regole europee sulla pesca, maggiore risorsa dell’Isola. Questo nuovo statuto durerà fino alla concessione del «Self-Government Act» del 2009, che però non equivale a un’indipendenza formale totale. Tra il 2014 e il 2017, il governo groenlandese ha costituito una Commissione per la riconciliazione, ma al momento non sono stati fatti passi avanti significativi, soprattutto perché i governi danesi si sono rifiutati di parteciparvi.
Come abbiamo sentito dire a diversi giornalisti «progressisti o liberal» nei media italiani, indignati dall’arroganza imperiale di Trump, non si può negare che la Groenlandia sia un «pezzo d’Europa».