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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Intervista a Ilia Kim (ricorda il marito Piero Rattalino)

Lo scrittoio con il Mac è ancora come lo aveva lasciato Piero Rattalino. Minuscolo, quasi francescano, ma sovrastato da un’ampia e luminosa finestra. Da questa confortevole tana immersa nella quiete, a due passi dall’Auditorium parco della musica di Roma, il più importante intellettuale italiano del pianoforte ha costruito nei decenni una vera e propria cattedrale del pensiero musicale, sfornando senza sosta saggi, biografie, manuali, programmi di sala e recensioni. Per incrociare lo sguardo della moglie, llia Kim, il critico piemontese non doveva far altro che voltarsi verso il prezioso strumento che domina il salotto, proprio davanti al suo studiolo. Lì avrebbe trovato sempre all’opera la pianista coreana, che in questi giorni si sta preparando al concerto che terrà martedì a Imola, in ricordo del marito. A due anni dalla sua scomparsa (appuntamento 1’8 aprile alle ore 21 al Teatro Ebe Stignani, per Emilia-Romagna Festival).
Lei ci ha tenuto a iniziare questo dialogo eseguendo la Sonata n. 8, Op. 13 in do minore di Ludwig van Beethoven, per tutti la Patetica. E regalando ai lettori della Verità la possibilità di ascoltarla integralmente in esclusiva, dato che non l’ha mai incisa, in una puntata speciale del podcast Non sparate sul pianista. Perché?
«Non poteva che essere così. Questa Sonata è stata l’Alfa e l’Omega dell’amore tra me e mio marito su questa terra. Piero me lo diceva sempre: “Mi sono innamorato di te prima di tutto come artista, per la tua interpretazione di questo capolavoro. Un attimo dopo della donna che sei”».
Lei invece?
«lo, al quinto minuto della nostra prima lezione, capii di aver trovato il maestro che stavo cercando da tutta la vita. Poi è nato un sentimento che nemmeno la morte può scalfire».
Nel 1996 il vostro primo incontro, quando da giovane interprete si presentò a un’audizione alla prestigiosa Accademia pianistica di Imola.
«Un’occasione nata quasi per caso. All’epoca studiavo a Berlino, dove ero arrivata dalla Corea del Sud quando ancora c’erano il Muro ed Herbert van Karajan. L’Italia mi affascinava, ma i miei piani erano diversi. Progettavo di trasferirmi negli Stati Uniti per collaborare con Leon Fleisher, con il quale avrei suonato tempo dopo. Decisi comunque di fidarmi del consiglio di un’amica e mi ritrovai in questa meravigliosa Rocca sforzesca. Era quasi la vigilia di Natale. In commissione notai un uomo con due occhi glaciali che si scorgevano appena perché era imbacuccato in un cappotto scuro. Biascicò un “buongiorno” impercettibile e poi esclamò con una voce stridula: “Chopin!”».
Era nel programma che lei aveva portato?
«Sì, ma mi stava completamente stravolgendo la scaletta. Tra me e me pensai: “Ma guarda questo str... vuol farmi iniziare a freddo dallo Studio op. 25 n.10”» (ride). Per chi non lo conoscesse, a livello tecnico è un massacro. Accettai la sfida sibilando: “Ora ti faccio vedere io cosa so fare, ma poi sarai tu a dover dimostrare di potermi insegnare qualcosa”».
Dopo lo Studio, toccò alla Patetica. Come mai, secondo lei, Rattalino rimase così colpito dalla sua esecuzione?
«Ero saltata fuori dal nulla arrivando da una Berlino nella quale la presenza di Karajan non stava permettendo all’estetica dell’avanguardia di attecchire ancora. Era un ambiente tardo-romantico e molto creativo che invitava gli artisti a essere personali. Sta di fatto che la mia interpretazione lo stupì profondamente, cosa che accadeva di rado. La trovò decisamente originale».
Cosa intende dire?
«Lui per una vita ha tentato di educare i suoi allievi alla libertà e all’indipendenza, non alla ripetizione di uno schema. A me disse: “Tu sei già libera”».
Non stupisce quindi che lei passò la selezione entrando nella classe del Maestro, il quale successivamente diventerà il suo compagno di vita. Mi permetta un brusco salto in avanti nel tempo. Dopo quasi 30 anni fianco a fianco, il 5 aprile del 2023 tornate proprio a Imola per una delle vostre lezioni-concerto.
«E ovviamente dedichiamo il nostro “recitar suonando” alla Patetica. Una serata entusiasmante. Mio marito sembrava un leone, nonostante le dialisi e i suoi 92 anni: due ore in piedi a raccontare e a rispondere in modo appassionato alle domande. A cena, dopo la conferenza, era molto soddisfatto».
Poi cosa accadde?
«Appena tornati in albergo il crollo... Se n’è andato in pochi minuti, mentre lo stringevo tra le mie braccia. Proprio come desiderava lui».
In che senso?
«Aveva predetto fin dall’inizio che mi avrebbe salutato così».

Cos’ha voluto dire per lei questa perdita immensa?

«lo non credo alle coincidenze. A Imola, nel segno di Beethoven, si era aperto un cerchio e lì si era chiuso. Ora me ne toccava un altro».
Quale?
«Quello del dolore, della ricerca di un senso davanti alla tragedia e di un nuovo scopo. Piano piano ho capito che se su quella musica era stata scritta la storia del nostro amore, lì dentro avrei potuto trovare anche la strada per elaborare il lutto».
Mi faccia capire meglio.
«Quando nel 1798 Beethoven compose la Sonata n. 8, Op. 13, stava vivendo la crisi più drammatica della sua esistenza: l’udito abbandonava in modo beffardo uno dei più grandi compositori della storia. Lo racconta lui stesso ai suoi fratelli nel famosissimo Testamento di Heiligenstadt, una lettera del 1802 nella quale ammette di aver pensato al suicidio: “Solo l’arte, sì, solo essa mi ha trattenuto”. La Patetica quindi non è altro che la narrazione dell’attraversamento e della liberazione dalle tenebre da parte dell’artista, che vive sulla sua pelle tutte le tappe che la psicologia ha poi descritto nel dettaglio: negazione, rabbia, negoziazione, rassegnazione e accettazione. Ecco, in quel momento toccava a me fare lo stesso percorso».
Riuscirebbe a indicarmi questi cinque passi che ci conducono dalla tempesta alla quiete dentro la musica di Ludwig van Beethoven?
«Certamente. Tutto il primo movimento, Grave, è costruito sul violento contrasto tra l’implorazione del compositore e il destino implacabile. È una sorta di preghiera, Beethoven non vuole diventare sordo, ma la realtà non sente ragioni. La negazione lascia il posto alla rabbia, che inevitabilmente emerge. Nel secondo movimento, Adagio cantabile, spunta invece la negoziazione. Davanti a una prova, sarà capitato a tutti di chiedersi: e ora che posso fare? Il Rondò finale è il momento della rassegnazione. Nelle ultime battute infatti il compositore di Bonn sbatte il pugno sul tavolo. È il suo “E così sia”».
E l’accettazione?
«Per accorgersi della pacificazione raggiunta bisogna passare all’Op. 14».
Chi vuole verificare con le sue orecchie può ascoltare il podcast Non sparate sul pianista. Ma anche lei è riuscita a salire su quest’ultimo gradino, come Beethoven?
«La morte è ancora più perentoria della sordità. Al disegno di Dio non ci si può opporre».
Prima accennava al nuovo scopo che ha dovuto trovare da quando suo marito non c’è più.
«Sì, esatto. Provo a continuare la sua missione, anche se nessuno è come lui».
Insieme stavate esplorando nuove risposte al declino del concerto dal vivo.
«È l’idea alla base del “recitar suonando”. Piero osservava che ormai tutta la musica incisa dall’uomo è disponibile in Rete. Chiunque può attingere da questo patrimonio senza limiti, direttamente da casa sua. E così può vivere l’esperienza dell’estasi, pura contemplazione della bellezza, ma senza alcuna partecipazione. L’evento live dev’essere invece qualcosa di radicalmente diverso: un avvenimento che riesca a coinvolgere la sfera emotiva. Spesso però non è così, nonostante la lezione di Franz Liszt. Fu lui a inventare il concerto pianistico, a Londra nel 1840. E non a caso gli diede il nome di recitals, ovvero “recitazioni”».
Ma com’era, da pianista, vivere con quello che era considerato il più grande tra i critici, il «sacerdote» del pianoforte?
«In realtà mi spiace che mio marito venga ricordato solo per le immense conoscenze che tutti gli riconoscevano e non per la sua straordinaria umanità. Lo sa qual era il nostro più grande divertimento?».
Me lo dica lei.
«Buttarci sul letto e cantare a squarciagola, come bambini. Affrontavamo le melodie più disparate e poi facevamo a gara a dire cosa ci ricordavano, trovando nessi inaspettati. Un giorno un mio collegamento mentale lo ammutolì».
Perché?
«Non aveva alcun senso dal punto di vista cronologico, ma io lo difendevo. Ci pensò a lungo e poi concluse: “Ciccina, si vede che siamo di due ere diverse”. Avevamo 40 anni di differenza, ma il punto non era quello. “lo sono moderno”, mi disse ridendo, “tu sei già postmodernista”».
Non proprio il classico dialogo tra moglie e marito. Ma perché dice che il lato umano di Rattalino è stato sottovalutato?
«Pochissimi sanno che, durante gli anni di Piombo, difese il teatro di Bologna dalla minaccia di un’occupazione. I dirigenti e gli orchestrali scapparono, lui che era il direttore artistico no. Si barricò dentro giorno e notte facendo il turno con i macchinisti e le comparse. In un altro teatro, un cantante d’opera provò a proporgli ipotetici affari loschi mentre lo registrava, per provare a diffamarlo. Piero non si vendicò, anzi, anni dopo gli affidò una parte importante. lo non volevo crederci. “Ma come?’’, mi arrabbiai, “quell’uomo voleva rovinarti”. E lui: “Era solo disperato e comunque questo è il ruolo giusto per lui”».

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