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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Effetto dazi, Apple la più colpita: così un iPhone potrà arrivare a costare 2300 euro. Ritardi nello sviluppo delle Ai

I numeri sono chiari, e fanno paura: fino al 46% di dazi sui prodotti provenienti dal Vietnam, il 26% su quelli dall’India, il 34% dalla Cina. Tutti Paesi chiave, anzi vitali, nella filiera globale dell’elettronica di consumo. In mezzo: smartphone, laptop, smartwatch, cuffie, tablet, e praticamente tutto ciò che oggi popola le scrivanie, le tasche e le case nel mondo. Con il ritorno sulla scena politica americana di Donald Trump – che aveva già anticipato nuove politiche commerciali aggressive in campagna elettorale – il settore tech si trova a dover fare i conti con un nuovo, potenzialmente devastante, scenario di rialzi, sia nei costi di produzione che nei prezzi finali. Perché se il cuore della tecnologia batte nella Silicon Valley, le mani che assemblano e confezionano i suoi dispositivi lavorano tra Shenzhen, Hanoi, Bangalore e Chengdu. E ora quelle mani costeranno di più.
La guerra dei dazi 2.0
Non è la prima volta che il settore deve affrontare il protezionismo trumpiano. Già nel 2018 l’allora presidente aveva imposto una serie di tariffe su prodotti cinesi, colpendo in pieno la catena logistica delle aziende hi-tech americane. Quella mossa, all’epoca, portò colossi come Apple, HP, Dell e Microsoft a spostare parte della produzione in Paesi «amici» come India e Vietnam, nella speranza di proteggersi da futuri choc geopolitici. Ma oggi quella strategia sembra essere arrivata al capolinea. Proprio quei Paesi alternativi alla Cina sono entrati nel mirino del nuovo piano annunciato da Trump, che ha definito la misura una «risposta necessaria» alla «manipolazione valutaria» e ai «barrierismi commerciali» contro gli Stati Uniti. Un’agenda che, nelle intenzioni, dovrebbe riequilibrare il commercio mondiale, ma che nella pratica potrebbe generare un effetto domino di rincari su tutta l’elettronica di consumo.
Quanto aumenteranno i prezzi
Le stime più attendibili arrivano dagli analisti di Morgan Stanley: l’effetto combinato delle nuove tariffe potrebbe costare ad Apple da sola oltre 8,5 miliardi di dollari in un anno. Tradotto: circa 7% in meno di profitti, oppure un aumento di prezzo su gran parte dei dispositivi di punta. E se Cupertino piange, gli altri non ridono. Un laptop da 1.000 euro oggi potrebbe salire fino a 1.150 euro. Uno smartphone da 1.200 euro rischia di superare i 1.400. Cuffie, accessori, router, tablet: ogni dispositivo elettronico che attraversa l’Oceano Pacifico potrebbe presto costare dal 10 al 20% in più. Perché se è vero che alcune aziende potrebbero decidere di assorbire parte dei costi, è altrettanto vero che la pressione sugli utili renderà inevitabile il trasferimento dell’onere sull’utente finale.
Il caso Apple
Tra tutte le big tech, Apple è senza dubbio quella più esposta. Il 90% degli iPhone venduti nel mondo viene ancora assemblato in Cina, da Foxconn e Luxshare. Negli ultimi anni, sotto la spinta proprio dei primi dazi trumpiani e della pandemia, la Mela aveva avviato una faticosa diversificazione produttiva: iPad e AirPods in Vietnam, iPhone in India, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza da Pechino. Ma oggi quel piano rischia di rivelarsi un boomerang.
I nuovi dazi – 26% sull’India, 46% sul Vietnam – colpiscono in pieno i due assi su cui Tim Cook aveva puntato per il futuro. E non solo sul fronte della produzione: anche le vendite nei due mercati potrebbero subire un colpo durissimo, in un momento in cui Apple sta cercando disperatamente di crescere fuori dai mercati maturi. In India, per esempio, l’azienda spera di portare la produzione di iPhone al 25% del totale entro il 2026. Un obiettivo che ora appare molto più lontano.
A seguito dei dazi del 2018, Bloomberg aveva previsto un aumento dei prezzi di listino degli iPhone di fascia alta fino a 150 dollari negli Stati Uniti, con incrementi simili anche in Europa. Una dinamica che non si è verificata, per quanto però oggi Cupertino sembra non avere molte alternative: riportare la produzione negli Stati Uniti, come auspicato da Trump, è logisticamente difficile e tecnologicamente poco fattibile. Lo stesso Tim Cook, in un’intervista rilasciata nel 2017, ha dichiarato come «negli Stati Uniti non esiste una forza lavoro sufficientemente specializzata per sostenere la produzione su larga scala di dispositivi Apple». Un’ipotesi che, dati alla mano, trova conferma: l’unico prodotto dell’azienda di Cupertino realizzato negli Stati Uniti è il Mac Pro, che però ha volumi di vendita infinitamente più bassi degli altri dispositivi. «In Cina potremmo riempire interi stadi di ingegneri di processo. Negli USA fatichiamo a riempire una sala riunioni», disse all’epoca Cook.
Il Wall Street Journal ha perciò provato a ricostruire il costo di produzione di un iPhone 16 Pro da 256 Gigabyte attraverso il supporto di Wayne Lam, analista di TechInsights. Considerando anche l’assemblaggio e i vari test, ciascuna unità dovrebbe costare a Apple una cifra attorno ai 580 dollari. A questi vanno aggiunti i costi di marketing e quelli dei servizi che funzionano su ogni singolo smartphone della mela, come iMessage e iCloud. Tutto questo però ha sempre consentito all’azienda di Cupertino di mantenere un margine operativo importante.
Con i dazi annunciati da Trump la situazione può cambiare radicalmente. Il costo di produzione salirebbe a 850 dollari, con il margine di profitto che si ridurrebbe drasticamente se Apple non aumentasse il prezzo di listino. Una logica che potrebbe confermare l’ipotesi avanzata da Reuters di un iPhone 16 Pro Max da ben 2.300 dollari nella versione da 1 Terabyte (contro i 1.599 dollari attuali).
Discorso ancora più complesso rispetto allo scenario dello spostamento dell’intera produzione degli iPhone negli Stati Uniti. Al netto di buona parte della componentistica che dovrebbe comunque essere importata, rimarrebbe il problema della manodopera. Secondo le stime di Lam, la manodopera di assemblaggio potrebbe costare 30 dollari a telefono in Cina, contro i 300 dollari negli Stati Uniti.
Rispetto a queste stime non ci sono comunque conferme ufficiali da parte dei portavoce dell’azienda.
E gli altri? Anche Google, Microsoft, Dell e HP tremano
Apple è solo la punta dell’iceberg. Anche Google, Microsoft, HP, Dell, Lenovo si trovano ora davanti a un bivio complicato: assorbire i costi (con un taglio ai margini) o ribaltarli sui consumatori (con il rischio di rallentare le vendite). Le più vulnerabili sono le aziende che hanno una componente hardware significativa nel loro business: laptop, smartphone, visori, wearable, router, server.
Google e Microsoft, per esempio, hanno spinto negli ultimi anni sui loro dispositivi consumer (Pixel, Surface, Nest), cercando di rendersi più indipendenti dai partner esterni. Ma la realtà è che anche questi prodotti vengono assemblati prevalentemente in Asia. E i nuovi dazi rischiano di far salire in modo sensibile i costi, proprio mentre le aziende stanno investendo miliardi in intelligenza artificiale e infrastrutture cloud. In difficoltà anche i produttori di componenti: Qualcomm, Intel, AMD, Nvidia. Se i prezzi finali dei prodotti aumentano, anche la domanda potrebbe rallentare, con effetti a cascata su tutta la filiera.
Il caso Nintendo Switch 2
Significativa la situazione legata alla Switch 2, la nuova attesissima console di Nintendo annunciata qualche giorno fa. L’azienda giapponese aveva in programma l’apertura dei preordini il 9 aprile negli Stati Uniti ma ha deciso di posticiparli al fine di valutare l’impatto dei dazi imposti da Trump. La decisione è stata resa nota in una dichiarazione rilasciata dallo stesso colosso nipponico a The Verge, con la società che ha assicurato di fornire aggiornamenti sulla nuova data di inizio dei preordini in un momento successivo.
Nonostante questo slittamento nella fase di prenotazione, Nintendo ha confermato che la data di lancio, prevista per il 5 giugno, rimane al momento invariata. Considerando comunque l’importanza di un prodotto come la Switch 2 e la sua lunga gestazione (la prima generazione è stata svelata a ottobre 2016), la decisione di Nintendo di rinviarne le prenotazioni racconta l’impatto potenzialmente enorme dei dazi previsti da Trump (che nel caso del Giappone ammontano al 24%).
TikTok e il «fuoco amico»
Lo scenario dei dazi ha causato un freno anche alla questione TikTok negli Stati Uniti. L’intesa per la cessione delle attività statunitensi del celebre social network sembrava ormai cosa fatta, ma è stata improvvisamente ritirata giovedì, subito dopo l’annuncio da parte di Donald Trump di nuovi dazi contro la Cina. Lo riporta il Washington Post, citando fonti informate sui negoziati. Secondo quanto emerso, Trump era pronto a firmare un ordine esecutivo per approvare un piano che prevedeva la creazione di una nuova società a cui sarebbero state trasferite le operazioni di TikTok negli Stati Uniti. In questo modo, l’app avrebbe potuto continuare a operare nel Paese nonostante la legge che impone alla sua casa madre cinese, ByteDance, di cederne il controllo per evitare un divieto totale sul suolo americano.
Tuttavia, sempre secondo le fonti citate, dopo l’annuncio delle nuove tariffe commerciali da parte di Trump mercoledì, i rappresentanti di ByteDance hanno informato la Casa Bianca che la Cina non avrebbe più approvato l’accordo a meno di una riapertura dei negoziati sui dazi.
Alla luce degli sviluppi, Trump ha firmato un nuovo ordine esecutivo che concede a TikTok una proroga di 75 giorni. Il documento sottolinea che sono stati compiuti «progressi significativi», ma che l’intesa necessita di ulteriori passaggi per ottenere tutte le autorizzazioni necessarie.
I rischi per l’intelligenza artificiale
Un altro ambito dove i dazi potrebbero avere un impatto indiretto, ma non meno profondo, è quello dell’intelligenza artificiale. Per alimentare i grandi modelli linguistici come ChatGPT, Gemini, Claude o Grok, le aziende devono costruire data center mastodontici, pieni di chip, schede grafiche, memorie e impianti di raffreddamento ad altissima tecnologia. Tutti componenti prodotti e assemblati – indovinate dove – in Asia. Anche se i dazi non colpiscono direttamente i servizi digitali, l’aumento dei costi infrastrutturali potrebbe rallentare lo sviluppo dell’AI o renderlo economicamente meno sostenibile, almeno nel breve periodo. Con effetti imprevedibili sul posizionamento globale delle big tech americane.
L’impatto sui costi di costruzione dei data center potrebbe dunque essere di vasta portata. Un componente come l’acciaio (coinvolto in maniera diretta dai nuovi dazi) non è necessario solo per l’edificio fisico, ma anche per apparecchiature come i sistemi di raffreddamento, i trasformatori elettrici (essenziali per incanalare l’energia dalla rete ai componenti elettronici), tutte componenti prodotte principalmente al di fuori degli Stati Uniti.
Uno scenario che rischia di stravolgere i piani delle big tech. Microsoft aveva prospettato un investimento di 80 miliardi di dollari in data center per l’intelligenza artificiale nell’anno fiscale che si concluderà a giugno. Amazon aveva pianificato più di 100 miliardi di dollari, mentre Alphabet (Google) aveva stanziati 75 miliardi di dollari in spese in conto capitale complessive quest’anno.
Tutto questo senza dimenticare il progetto Stargate. Una joint venture formata da OpenAI, Oracle e Softbank (con il fondo Mgx degli Emirati come quarto investitore) pronte a investire 500 miliardi di dollari (di cui 100 subito e il resto nei prossimi quattro anni) per la creazione di data center e infrastrutture di calcolo necessarie per «garantire la leadership americana nell’Ai», come si legge nel comunicato di OpenAI.
Almeno per il momento però, il presidente americano ha concesso un’esenzione a una categoria cruciale di importazioni tecnologiche: i semiconduttori. Aziende statunitensi come Nvidia dunque, che utilizza per le proprie schede i chip avanzati prodotti dalla taiwanese Tsmc, non dovranno pagare i dazi del 32% imposti da Trump a Taiwan. Tuttavia non è chiaro se Tsmc sarà comunque soggetta alla tassa generale sull’export del 10%.
L’Europa pronta a rispondere
E l’Europa? Bruxelles si prepara a rispondere verso la metà di aprile. Rispetto al mercato dell’elettronica, il rischio è quello di un evidente effetto domino, che colpisca indirettamente i consumatori europei.
Del resto, gran parte dei dispositivi venduti nel Vecchio Continente arriva dagli stessi canali produttivi globali usati dalle aziende americane. Se i dazi colpiscono le importazioni USA, le aziende saranno costrette a rivedere al rialzo anche i listini europei per compensare le perdite. Inoltre, molte aziende europee che operano nel settore dei componenti – dai produttori tedeschi di semiconduttori a quelli italiani di elettronica industriale – potrebbero trovarsi tagliate fuori da una filiera sempre più in tensione e incerta. Con il rischio di un rallentamento degli investimenti, dell’innovazione e della crescita.
L’ipotesi più ottimistica è che i nuovi dazi siano solo un primo colpo negoziale, un modo per Trump di forzare la mano in vista di future trattative. Da questo punto di vista, nella giornata di ieri si è tenuta la 36esima edizione di primavera del workshop di Teha – Ambrosetti a Cernobbio su «Lo Scenario dell’Economia e della Finanza». In questa occasione è intervenuto il ministro spagnolo dell’Economia e del Commercio Carlo Cuerpo, che ha insistito sulla necessità di «arrivare a una soluzione negoziata» con gli Stati Uniti.
Peraltro l’hi-tech spesso è sinonimo di beni immateriali, come ad esempio sono i servizi di streaming. Ecco perché la risposta alle big tech americane  da parte dell’Europa potrebbe essere quella di introdurre delle tasse aggiuntive (e non dei «controdazi») nei confronti di colossi come Meta, X, Microsoft, Netflix, Amazon, che operano nel vecchio Continente potendo contare su una tassazione agevolata.
Ma il rischio è che la situazione sfugga di mano, aprendo la strada a una guerra commerciale globale simile – se non peggiore – a quella del 2018. Con un grande assente: la capacità delle imprese di riconvertirsi rapidamente. In un mondo che vive ormai di elettronica – dagli smartphone ai frigoriferi intelligenti, dai sistemi domotici alle auto connesse – qualsiasi perturbazione della filiera ha un effetto immediato sulle tasche dei consumatori. E questa volta, gli aumenti potrebbero essere solo l’inizio.