Corriere della Sera, 6 aprile 2025
Il presidente dell’Istat: «Più vecchi e più soli. Il 10,8% delle famiglie italiane è composto da single con più di 75 anni. E saliranno al 15% entro il 2043»
«Abbiamo una sfida urgente da affrontare».
Quale?
«L’aumento, sempre più rapido, delle famiglie composte da una sola persona anziana», risponde il presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli.
Che succede?
«Le do qualche dato. Ci sono 9 milioni e mezzo di famiglie unipersonali, cioè composte di una sola persona, sono il 36,2% di tutte le famiglie. Diventeranno quasi il 40%, cioè più di 10,7 milioni tra 18 anni, nel 2043. Delle attuali famiglie single, 4 milioni e mezzo sono composte da persone con più di 65 anni, saliranno a 6,2 milioni nel 2043. Anche se sono diversi anni che la tipologia di famiglia più diffusa è quella unipersonale, sorpassando i nuclei di due e più persone, ora osserviamo una decisa accelerazione. Cento anni fa le famiglie single rappresentavano il 9% del totale, oggi quattro volte tanto. Ma questo non è tutto».
Sembrerebbe già abbastanza.
«Vorrei soffermarmi sugli over 75. Nel 2023, sul complesso delle famiglie single, pesavano per 2,8 milioni, pari al 10,8% di tutte le famiglie italiane, nel 2043 saliranno a oltre 4,1 milioni, ovvero circa il 15% delle famiglie, una su sei. Spesso le persone con più 75 anni si trovano in una condizione di solitudine non per scelta, ma perché costrette. Tipico il caso delle vedove senza figli o con un figlio che però vive lontano. Quando queste persone cominciano ad avere problemi di autosufficienza, precipitano in una condizione di debolezza, di fragilità. E anche se hanno la fortuna di avere un figlio o una figlia che può occuparsi di loro, questi figli sono anziani anche loro».
Sta pensando alla scena che spesso si vede nelle sale d’attesa dei laboratori di analisi o negli studi medici di figli settantenni che accompagnano le madri novantenni?
«Esattamente. Un tempo non era così. Oggi per fortuna si vive più a lungo, ma per i cambiamenti demografici che ci sono stati, le persone molto anziane possono richiedere l’assistenza dei figli, anche loro anziani, per molto tempo. Se poi non hanno figli, sono ancora più soli. Le do un dato. Nel biennio 2023-24, tra gli over 75, quelli che vivono soli sono nel 73% dei casi vedovi o, più spesso, vedove, visto che le donne vivono più a lungo».
L’Italia è pronta a gestire questo forte aumento degli anziani soli? Che cosa bisognerebbe fare?
«Partiamo dalla considerazione che, appunto, la rete familiare di una volta oggi non c’è più. Il motivo è fondamentalmente l’invecchiamento della popolazione. Dobbiamo invertire il trend. È una sfida urgente: bisogna cercare di ringiovanire la società».
Come?
«Sono due le leve da azionare. La prima, fondamentale, è il rilancio della natalità, la seconda l’immigrazione. Si tratta di due leve da usare insieme, con politiche di lungo periodo. E non trascurerei un altro punto: la forte emigrazione di giovani italiani verso l’estero: in dieci anni se ne sono andati in 352mila, un dato non compensato dai 104mila giovani italiani che sono rimpatriati, col risultato che anche questo saldo negativo contribuisce all’invecchiamento della società».
Se non riusciamo a invertire il trend, che Italia avremo?
«Un’ Italia molto più piccola e più vecchia. Già oggi siamo scesi sotto i 59milioni di residenti. Secondo il nostro scenario mediano, la popolazione si ridurrà di quasi 13 milioni entro il 2080. Nell’ipotesi migliore, che include un miglioramento del tasso di natalità e del saldo migratorio, il calo si limiterebbe a quasi 6 milioni, nel peggiore salirebbe a 17 milioni. Si tratta di scenari diversi, ma molto affidabili, dipende appunto da come si muoveranno le due leve di cui parlavo prima».
Presidente, l’invecchiamento impatta anche sull’economia. Ci sono segnali contrastanti: occupazione record, ma crescono anche povertà e diseguaglianze, mentre i salari italiani sono quelli che hanno perso più potere d’acquisto nei Paesi dell’Ocse.
«Partirei dall’ occupazione. È in forte aumento, ma l’età media dei lavoratori invecchia. Tra il 2004 e il 2024 gli occupati sono aumentati di 1,6 milioni, risultato di 2 milioni di lavoratori in meno fino a 34 anni d’età, 1 milione in meno nella fascia fra 35 e 49 anni e un aumento degli over 50 di circa 4,6 milioni, tanto che oggi su 24,3 milioni di occupati abbiamo più di 10 milioni con più di 50 anni. Quanto a povertà, diseguaglianza e salari, bisogna considerare che l’impennata dell’inflazione degli anni passati non è stata affatto recuperata, nonostante il potere d’acquisto sia migliorato nel 2024, grazie anche al rinnovo dei contratti».
Davanti all’invecchiamento della forza lavoro, sembra non esserci scampo: bisognerà aumentare l’età pensionabile e aprire le porte all’immigrazione. È così?
«Non mi sento di dare una risposta univoca. L’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita è già previsto da un meccanismo automatico di legge. Come tutti gli automatismi rischia di non tenere conto di una serie di variabili, a partire dal fatto che non tutti i lavori sono uguali. Ma queste sono considerazioni che spettano alla politica, non all’Istat».
Come Istat ancora non avete detto la vostra sull’impatto dei dazi Usa sul Pil.
«Lo faremo a giugno, col vantaggio che la situazione sarà più assestata. Intanto, posso dire che nel rapporto sulla competitività diffuso di recente abbiamo misurato un “indicatore di vulnerabilità delle imprese” che prende in considerazione la diversificazione merceologica, cioè se l’azienda produce un solo prodotto o più prodotti, i mercati di esportazione e la quota di export sul fatturato. Le imprese vulnerabili all’export erano, nel 2022, poco più di 23 mila, lo 0,5% del totale, ma rappresentavano il 2,3% del totale degli addetti (415mila), il 3,5% del valore aggiunto e il 16,5% dell’export. Si trattava quindi per la maggior parte di imprese grandi. Le imprese vulnerabili alla domanda statunitense erano 3.300 posizionate in diversi settori: farmaceutica, meccanica, gioielleria, generi alimentari e mobili».