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 2025  aprile 06 Domenica calendario

«Mio nonno Thomas Mann: il farfallino, le differenze tra i figli, l’omosessualità dopo i 40 anni. Quando rovesciai il vino su Ungaretti»

«La mattina non si doveva far chiasso: il nonno lavorava. Niente chiasso di pomeriggio: riposava! Ma come, chiasso nemmeno la sera? Stava leggendo i giornali, rispondendo alle lettere che giungevano da tutto il mondo e teneva il suo diario segreto. Aveva nervi fragili. La nonna Katia e mia madre Elisabeth erano vestali inflessibili. Solo a mio cugino Frido era concessa qualche scorribanda alle porte del tempio, lo studio di nonno: era sfacciatamente il preferito e rimaneva a Pacific Palisades per mesi interi, mentre noi qualche volta raggiungevamo i nonni, da Chicago, per le feste o le vacanze estive. È vero che io e mia sorella parlavamo solo inglese e si creava una barriera linguistica, perché, in casa, si preferiva il tedesco, però il nonno era sempre stato così: da bambina, mia madre era la sua adorata, mentre lo lasciava indifferente il fratello minore Michael. A volte, mentre i due giocavano insieme, si avvicinava a Elisabeth (Medi, per tutti) e le porgeva un cioccolatino. La nonna (Mielein, la chiamavamo in famiglia) lo rintuzzava: “Non devi fare differenze!”. E lui: “Devono pur abituarsi a un mondo pieno di ingiustizie”».
I giorni americani
La villa del nonno famoso, il premio Nobel per la letteratura Thomas Mann, si trovava su una collina californiana, quattro miglia dall’oceano, dove lo scrittore più famoso del Novecento, aveva “nidificato” nel 1942, dopo quasi dieci anni di esilio dalla Germania nazista. Era un Eden di palme, limoni, eucalipti, fiori lussureggianti e tanto prato. Nica Borgese, nata nel 1944 dal matrimonio tra la quinta figlia dello scrittore e il critico letterario antifascista italiano Giuseppe Antonio Borgese (di 36 anni più anziano), così ricorda le sue visite a Pacific Palisades: «Il nonno era impeccabile a qualsiasi ora del giorno, con il farfallino. Una figura immensa, distante. Forse lo ricordo così perché a tavola ero sempre seduta dalla parte opposta. Tuttavia, adoravo quelle visite, affascinata dalla bellezza del giardino e anche dalla presenza della zia Erika, sorella maggiore della mamma, che la sera ci raccontava, con grande spirito, storie di famiglia, facendo mostra del suo talento comico e della sua bravura come imitatrice, doti sviluppate quando da giovane faceva l’attrice. Mio nonno è stato poi mio padrino di battesimo, nella Chiesa Unitaria alla quale ci aveva indirizzati lui stesso. Nei suoi diari mi descrive con tenerezza, del resto ero la figlia di Medi, la sua amata, teneramente descritta nella novella Disordine e dolore precoce. La mia mamma era cresciuta circondata da un grande amore che la faceva sentire sicura di sé, cosa che non accadde ad alcuni dei suoi fratelli».
L’ombra lunga, ingombrante del “Mago”, com’è spesso definito Thomas Mann, si proietta ancora oggi nella casa milanese di Nica, l’abitazione di un professore universitario, biologa cellulare, non paragonabile alla villa di Pacific Palisades. Di fronte al pianoforte, la pendola fabbricata appena prima della Guerra di Secessione, acquistata dal nonno da un antiquario di Princeton, e ricordi ovunque, un quadro di Frank Herrmann, pittore amico di famiglia «che ho negli occhi fin dalla prima infanzia», piatti di porcellana e bicchieri avuti in dote da Mielein Katia, figlia di un matematico ebreo collezionista d’arte e musicista, dove hanno mangiato e bevuto Albert Einstein, Theodor Adorno, Bertolt Brecht, Arnold Schoenberg.
Nica vive a Milano dal 1972, ma pochi la collegano al nonno. Lei non ne fa mai cenno, anche se oggi quel tabù è spezzato. «Da ragazza quasi mi vergognavo di essere la nipote di Thomas Mann, non volevo che quel nome accendesse curiosità e mi facilitasse l’esistenza. Tornammo in Europa, noi a Firenze e i nonni a Zurigo, nel ’52 perché l’America di Roosevelt, tanto apprezzata dal nonno e dal papà, si stava involvendo in quella del maccartismo, della caccia alle streghe. A scuola a Chicago avevo sentito che i russi sono cattivi. Lo dissi a mio padre e si arrabbiò moltissimo, cercando di spiegarmi che erano baggianate, che di quel passo l’America sarebbe diventata, a sua volta, fascista. In casa nostra certi valori erano sacri: la mamma, ragazzina, si era innamorata del papà dopo aver letto il suo libro Goliath, la marcia del fascismo, e per la tenacia con cui aveva avversato le aberrazioni di Mussolini. D’estate andavamo a Forte dei Marmi, dove avevamo una casa isolata in una via senza nome. Il sindaco decise di dedicarla a Thomas Mann e cominciai a sentirmi a disagio, come quando qualche compagno scopriva le mie origini. Non volevo che influissero sul mio futuro, anche perché sulla vita di alcuni zii, in particolare dello zio Klaus, il continuo raffronto fu devastante. La mamma, invece, nel suo cognome si sentiva perfettamente a suo agio. La nostra casa fiorentina era diventata la tappa obbligata di artisti, musicisti e intellettuali progressisti. Ricordo John Cage, Henry Moore, Eugenio Montale, gli editori Fisher e Alberto Mondadori, Piero Calamandrei, Corrado Tumiati. Spesso non ero consapevole di chi fossero nella vita. Un giorno mi misero a tavola a fianco di Giuseppe Ungaretti. Allora mi divertivo a leggere la mano e gliela esplorai. «Vedo del talento», dissi e, maldestramente, con il gomito, rovesciai un bicchiere di vino rosso sul suo abito immacolato. Quando si trattò di scegliere il corso di studi, nonostante fossi bravina nei temi, fui felice di assecondare la proposta della mamma di iscrivermi a biologia. Lei aveva grande fiducia nella scienza e in quegli anni, nel ricordo dell’impegno del marito a favore di un futuro governo mondiale, cominciava ad occuparsi della legislazione internazionale degli oceani, campo cui si dedicò appassionatamente negli anni. Entrambi, il papà e la mamma, furono candidati al Nobel per la pace».
Tornati in Europa i riti di famiglia non mutarono. Dai nonni si andava per le feste. «C’era ancora lo stesso albero di Natale con fili d’argento e candele vere, allestito da Mielein come quello descritto nei Buddenbrook. Mentre la domestica accendeva le candeline, la famiglia riunita aspettava in una stanza adiacente e talvolta cantavamo canzoni natalizie tipo Heilige Nacht. Poi si spalancavano le porte e correvamo ai tavolini disposti attorno all’albero dove sopra a una tovaglietta bianca erano esposti, senza le confezioni, i regali: niente bambole, ma il meccano o un orologio svizzero da montare, cose virili. Dopo la morte del nonno Mielein, legatissima a mia madre, venne spessissimo da noi. Raccontava di quando Thomas la notò su un tram e non le diede più tregua. Lui innamoratissimo, lei freddina anche perché era una delle poche donne, in quella Germania d’inizio secolo, ad aver preso la maturità e aveva ambizioni scientifiche. Thomas Mann era già l’autore del best seller I Buddenbrook. Dopo molte insistenze, visto che non era poi un cattivo partito, ma soprattutto per qualche incomprensione nel laboratorio dove faceva ricerca, decise di diventare la moglie – e la vestale – di un uomo destinato ad entrare nell’Olimpo della letteratura mondiale. Se ne innamorò lentamente e divennero una coppia solidissima, anche perché l’omosessualità del nonno si manifestò soprattutto dopo i quarant’anni. Divenne, lei nipote di una delle prime femministe tedesche dell’Ottocento, la stanza silenziosa dove il genio poteva pensare e scrivere senza essere turbato dai clamori e dalle privazioni scatenate dalla Prima guerra mondiale. Raccontava che nel 1916 andò a far loro visita Stefan Zweig. Venne servito il tè con una zuccheriera colma. Lo scrittore austriaco si meravigliò: “Da noi a Vienna è tutto razionato”. Thomas rispose candidamente: “No, qui da noi si trova tutto”. Nemmeno sapeva che stava godendo di ben sei razioni e che la famiglia si sacrificava senza farglielo notare. La nonna, battezzata luterana, ha saputo solo a dieci anni che suo padre era ebreo e ne rimase abbastanza sconvolta. Rifiutò sempre le sue origini ebraiche: quando arrivò in America, a un giornalista che le chiese se era israelita rispose “Not a bit”, nemmeno un po’».
Nica disse ben presto addio a questo mondo, studiò all’Università di Parigi e fece il dottorato a New York, ma c’era in lei un tarlo, come in tutti i Mann, che la lasciava insoddisfatta. Il suo lo individuò nel bisogno di mettere radici, di porre fine alla vita randagia che aveva sospinto la sua famiglia lontana dalla Germania. Le sue, di radici, erano però in Italia, e vi tornò, riscoprendo quanto aveva in comune con suo padre: «Ho acquistato una casa di vacanza in Val d’Ayas, dove amo fare lunghe camminate e mi trovo perfettamente a mio agio. Un giorno passo da un albergo ormai abbandonato e scorgo una targa che ricorda alcuni intellettuali che soggiornarono lì nei primi anni del secolo scorso: c’erano anche i nomi di mio padre e della sua prima moglie».