la Repubblica, 6 aprile 2025
Nino secondo Toni
Ci prendiamo un caffè? Anche se dicono che da stamattina già ne ho bevuti troppi…». Nino D’Angelo ha in braccio il nipote più piccolo. Ci gioca, fa le smorfie, gli sfiora il naso con il suo. Dall’altro lato della stanza c’è suo figlio Toni, regista. Metà mattina, nello studio in cui entrambi lavorano, nella stessa zona di Roma in cui il cantante vive da quasi 40 anni. «Eppure quando penso al mio posto, penso solo a Napoli. Siamo venuti qui perché per due volte, nel 1986, spararono contro casa mia. Un proiettile arrivò nella stanza dei bambini. Erano altri tempi. Decisi che dovevo mettere al sicuro la famiglia. Ci trasferimmo in un giorno». Durante il caffè, Nino lascia il nipote tra le braccia della nuora, abbassa un po’ lo sguardo. «Stavamo parlando delle foto che girano del cadavere di Maradona. Mi si è spaccato il cuore. Io e Diego ci volevamo bene perché in una cosa eravamo uguali: ci siamo incontrati quando avevamo tutto, ma venivamo dal niente, quello vero».
E “il niente quello vero” è il puntodi partenza di 18 giorni, il documentario che Toni sta ultimando. Nino lo ascolta, attento. «Si chiama così perché io e mio padre ci siamo “toccati” solo diciotto giorni dopo la mia nascita. Era a Palermo per degli spettacoli e non poteva lasciare la compagnia, avrebbe fatto perdere il lavoro a tutti. Prendo quei giorni come pretesto per andare alle mie origini. E quindi alle sue». E le origini di Nino D’Angelo sono San Pietro a Patierno, quartiere di Napoli, una stanza al piano basso di un vecchio palazzo. «Ho visto le immagini che Toni ha ritrovato. Casa mia era una stanza, con tavola e un solo letto in cui dormivamo tutti. Era un cortile in cui ogni signora diventava madre che accudiva. Casa mia era mio padre che faceva il ciabattino e voleva che lo facessi anche io. Quando ero piccolo mi chiamavano semmenzella», chiodino, di quelli utilizzati dai calzolai per unire la suola alla tomaia. «Ma non esisteva proprio. Dovevo cantare. Uno dei miei zii organizzava dei concertini e in uno di questi feci il mio debutto».
E poi i primi dischi, vendutissimi, la benedizione di Mario Merola, la strada aperta alla fine degli anni Settanta come erede della sceneggiata. «Ma neanche quello volevo fare. Io dovevo cantare la mia generazione. E soprattutto dovevo portare tutta la mia famiglia fuori dalla povertà. Grazie a quei successi stiamo tutti meglio. E figuriamoci, capisco quando dicono che quelle canzoni non sono granché. Non piacciono neanche a lui», e Nino indica con il mento Toni, si sorridono. «Non è la musica che ascolto. Da ragazzo e poi da adolescente sono stato metallaro». Nino fa una smorfia: «Mamma mia, tutte quelle chitarre. Gli Iron Maiden. Chiedevo a mia moglie: ma questo, già tifa per la Lazio, che si sente? E poi non gli piace lamusica mia?!». E mentre padre e figlio ridono bisogna fermarsi dal proporre un disco con le versioni metal di Popcorn e patatine, di Nu jeans e ‘na maglietta, di Napoli: stacco di batteria, distorsioni e un coro epico su “quei ragazzi della curva B”.
Quelli erano gli anni del caschetto biondo, «quanto lo ho odiato», ci dice Nino. «All’inizio degli anni Novanta sono andato in depressione. Anche la musica era lontana». Poi arriva Tiempo, l’endorsement di Goffredo Fofi e di tanta altra critica. «Una certa Napoli non mi considerava. Per l’altra, quella popolare, sarei dovuto restare sempre allo stesso punto. Ma io sentivo che avevo qualcos’altro da dire. Solo che non sapevo come. La mia maestra alle medie diceva che ero un poeta che non sapeva parlare. Lo sono ancora». Toni interviene: «È anche questo che voglio raccontare nel documentario: l’esistenza di una cultura non istituzionale che però è creazione di comunità. Mio padre e le persone come lui vivono secondo valori, poi arrivano i concetti. E sono valori preziosi: la fatica dello stare insieme, il lavoro sopra ogni cosa, lo sguardo non a se stessi ma alla famiglia e agli altri. E l’arte come modo di veicolare tutto questo». Nino si fa orgoglioso al limite della commozione, poi replica. «La mia vita è semplice. Colazione con sette biscotti, venti minuti al pianoforte per vedere se arriva qualche melodia. E poi immaginare cose che fanno stare bene gli altri». Come succederà l’11 settembre quando a piazza del Plebiscito Nino porterà tutti i suoi anni Ottanta. «Ho suonato all’Olympia di Parigi, ho diretto teatri. Ma quella sarà una giornata indimenticabile. Come il concerto che ho fatto al Maradona». Poi ci saranno piccoli spazi, magari esibizioni con pochi strumenti. «Dal niente mi ha portato fuori il desiderio. E adesso, senza offesa per nessuno, vorrei diventare qualcosa come il Gaber dei poveri. E dare spazio ai giovani».Nonostante le insistenze, si sottrae al totonomi sul suo erede. Dice solo: «Geolier. Se c’è un cantante napoletano che oggi fa qualcosa di nuovo è lui. Ci siamo incontrati solo per cinque minuti una volta. Spero che ricapiti. Ma guardate qua…» e indica una foto del battesimo di Toni. Tutta la famiglia insieme in un ristorante. E gli occhi chiari diventano ancora una volta rossi di commozione. Viene voglia di scrivere che è lo sguardo di chi con le canzoni e con il desiderio è uscito dal niente, dal niente quello vero.