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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Nella fabbrica che inventa le mele del futuro

La fabbrica delle mele sembra solo una moderna cascina nella pianura tempestata di fiori, invece è il laboratorio dove “si coltiva il futuro”: così sta scritto sul grande manifesto che dà accesso alla sala dove giovani agricoltori stanno imparando cos’è la terra di domani. C’è anche una coppia con un bambino. Tutto quello che vedi, piccolo, un giorno sarà tuo.
Nei sette ettari di frutteto dedicato alle nuove varietà è già un’esplosione di petali bianchi. E sul lungo tavolo dove ci accoglie Davide Nari, agronomo, ci sono una decina di cassette di mele mai viste. «Le stiamo valutando, è una parte della sperimentazione prima di arrivare alla produzione, infine alla vendita: un percorso che può durare anni».
La prima cassetta contiene pomi di un giallo insolito, un giallo limone o forse banana, un giallo canarino. «Non hanno ancora un nome. È una specie progettata come risposta al cambiamento climatico, capace di non scottarsi troppo al sole che fa perdere la colorazione alla buccia e rende molle la polpa. Inoltre, si raccoglie a metà novembre, allungando il calendario della produzione». In un’altra cassetta, ecco mele grosse come palle da bowling, rosse e gialle. «Si chiamano Tonik, le hanno progettate in Francia e hanno una pezzatura più grossa. Perché oggi il mercato chiede le mele di Biancaneve, non quelle antiche e gustosissime delle nostre campagne, buone ma talvolta acidule, e bruttine da vedere».
Progettare una mela come fosse una casa o una lavatrice, fauno strano effetto. Ma il dottor Nari non è uno Stranamore della frutta, bensì un giovane studioso che ci spiega come un occhio sia al mercato, certamente, ma quell’altro alla salute della frutta: «L’obiettivo è migliorare il prodotto per contrastare meglio le malattie, ad esempio la ticchiolatura del melo, un attacco di funghi che avviene in primavera». E qui arriva in soccorso la vecchia mela “brutta e buona”, le antiche cultivar, le specie più resistenti che servono a creare quelle nuove, le loro figlie giovani, belle, lucide, rosse e croccanti, mai farinose orugginose, per carità: «Usiamo il polline dei fiori delle varietà storiche, come la Renetta Grigia di Torriana, per arrivare a mele più forti e resistenti».
Scienza, pazienza e fantascienza, come i pannelli a sensori progettati dal Politecnico di Torino per misurare il benessere di ogni pianta attraverso un’analisi in tempo reale della linfa (si tiene conto dei valori di impedenza e della concentrazione delle sostanze nutrienti), ma anche uno strumento quasi senza tempo come il pennellino che cattura il polline dagli stami come un’ape innamorata. «È un passaggio chiave: poi nascerà un nuovo albero dal quale raccoglieremo le prime mele, e ognuna avrà cinque semi con un patrimonio genetico sempre diverso. Si pianteranno questi semi finché non avremo specie con caratteristiche costanti, e allora attraverso gli innesti potremo forse creare una nuova varietà». Per il mercato italiano e soprattutto estero: Nord Europa, Germania, Gran Bretagna, Sud Est Asiatico, Qatar. La fabbrica delle mele, dazi permettendo, va alla conquista del mondo.
Ma se la mela di Biancaneve può essere fabbricata in laboratorio, questo dipende anche dagli antichi frutti che offrono il loro Dna. Ci spostiamo a Bibiana, oltre la rocca dove nacque Cavour (la provincia è sempre Cuneo, la “Granda”), sulla collina in cui sorge la Scuola Malva, l’archivio vivente delle 450 varietà di mele piemontesi. Alcune sono vecchie centinaia d’anni. Un ettaro e mezzo di alberelli divisi in gruppi di tre, con un cartello che ne indica il nome: Pom d’la magna (mela della zia), Limonin, Durando, Pom ed l’or (mela dell’oro), Carpendù (peduncolo corto), Pom dal postìn (mela del postino), Cavalìn, Pasaròt (passerotto), Bianc brusc (bianca acida), Rosìn bleu. Ogni scheda della banca dati haun codice “qr” che dà accesso alle caratteristiche della varietà: dimensione, colore del frutto, forma, sapore, aroma, vigore dell’albero, portamento (sì, c’è scritto così), epoca di raccolta. L’arca di Noè delle mele, un enorme e preziosissimo archivio di tipologie che altrimenti andrebbero perdute, come ci racconta Dario Possetto, responsabile del progetto che tutela e conserve le antiche varietà piemontesi (ma nella “fruttoteca” ci sono anche 80 diversi tipi di meli e una sessantina di vitigni). «Abbiamo cominciato venticinque anni fa, e oggi siamo una fondazione. Senza questo nostro campo collezione, molti frutti potrebbero estinguersi perché il mercato li respinge: ormai la gente vuole solo la mela croccante, grossa, possibilmente rossa e dolcissima. Ci siamo disabituati alla diversità di sapori e profumi, è anche un appiattimento culturale oltre che sensoriale». Ma per arrivare a questo campo dei miracoli, regno degli agricoltori custodi, sono serviti decenni di censimenti: «Dovete immaginare funzionari che andavano di frutteto in frutteto a censire appunto la produzione più antica, gli alberi centenari, in un percorso che comprendeva vivaisti e collezionisti». Censire, classificare e poi creare il luogo di resistenza dove il patrimonio darà rendite in natura: «Il polline dei fiori di alcune di queste piante viene usato non solo per conservare l’antico, ma per creare il nuovo. Altre mele che saranno belle, buone, lucide e più robuste, finché magari il mercato tornerà ad apprezzare forme più irregolari e sapori meno omologati. Io penso che, se tutto è uguale, tutto è meno gustoso». E allora avanti col pennellino: la fabbrica del futuro comincia con un fiore.