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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Intervista a Jovanotti

Animale da palcoscenico di rara efficacia. Anima quieta, ma tutt’altro che priva di cicatrici. Uomo rinato, pensatore positivo, conversatore piacevolissimo e cantante di enorme successo (il riuscito Palajova 2025 è un sold out continuo), Jovanotti si racconta. E lo fa con un interlocutore con cui in passato non sono mancate frizioni.
Di politica hai sempre meno voglia di parlare.
È l’ultimo interesse che ho e non mi scalda il cuore. È stato un po’ diverso negli anni Novanta, quando ho scoperto che la politica esisteva, ma anche allora il mio era comunque un interesse globalista: il sud del mondo, l’Africa, l’America Latina, Cuba, Mandela. Un’attrazione ingenua ed estetica. Oggi sono giunto alla conclusione che in politica è tutta questione di lettura di segni ed energia.
Energia che riscontrasti in Renzi, anche se poi (ti cito) “qualcosa è andato storto”.
Sono inadeguato per l’analisi politica: mi mancano proprio gli strumenti. Oggi vivo la politica come uno spettacolo, attraverso i talkshow. Guardo Otto e mezzo e a volte, se sono colto dalla pigrizia, quello che c’è dopo su La7. Mi piace vederti litigare dalla Gruber, negli anni hai acquisito una capacità di fare incazzare la gente in maniera quasi chirurgica e mai pretestuosa.
Hai detto che il grave infortunio in bici ti ha cambiato. In cosa?
Nella consapevolezza di possedere un corpo fragile. Credevo che malattie e infortuni riguardassero sempre e solo gli altri. Non percepivo la fragilità, ma neanche la forza. Nello sport ero una pippa in tutto, ma anche questo mi ha aiutato. Tendo a pensare che ogni sconfitta in qualche modo ti aiuti e ti insegni a cavartela da solo.
Come fai a essere sempre positivo?
In realtà io vedo sempre il negativo, perché la vita è piena di ferite, ma poi nell’arte opero una scelta di campo. Artisticamente scelgo lo spazio a me più congeniale. Se il mondo della musica è un presepio, io faccio quel personaggio lì: colui che porta alla luce gli aspetti positivi. Interpreto quella parte, che comunque mi appartiene ed è dentro di me: è una cosa autentica. E poi non saprei scrivere diversamente.
Cioè non sapresti scrivere “canzoni tristi”?
Esatto. Ho librerie di quaderni e file pieni di ipotesi di canzoni in cui sono cinico e crudele, ma non funzionano. Non mi riescono proprio. Neanche so essere narrativo
: non so dare una trama alle canzoni, non potrei mai scrivere Anna e Marco. Procedo sempre per immagini: le sceneggiature alla De André non mi vengono.
Cosa conta in una canzone?
La musica. I giornalisti con me vogliono parlare dei testi, che per me spesso non contano quasi un cazzo, soprattutto se estrapoli le parole dal contesto. Penso positivo è forte per il sound, per quel ritmo tra James Brown e Red Hot Chili Peppers che in Italia non era ancora arrivato. Mica per le parole. Vale anche per libri e film: della trama non me ne frega una sega.
Cos’è che più ti destabilizza?
La paura di non superare le difficoltà e di non adempiere a questo dannato senso del dovere, che mi ha inculcato mio babbo a calci in culo. Io la conosco la depressione: ci sono cresciuto, ne ha sofferto a lungo mia madre. So di cosa parlo, però non ci sono mai finito dentro. E neanche sono mai andato in analisi: per curarmi mi basta scrivere canzoni. Anche dopo l’infortunio, la paura non era quella di non tornare sul palco, ma di come ci sarei tornato. Mi immaginavo zoppicante, infatti guardavo Iggy Pop e Joe Cocker per abituarmi a una vita “storta”.
L’hai sfangata?
No. Mi avevano promesso una guarigione completa a Natale 2024, invece convivo con il dolore. Una volta sono stato sul Monte Athos a incontrare degli anacoreti. Dieci giorni da solo. Mi raccontarono che molti portavano il cilicio, e anche per questo avevano sguardi così luminosi. Ci penso e mi dico che forse anche questo dolore è una forma di cilicio, che mi porto sul palco per godere di più.
La tua testa funziona così.
E questo provoca gravi scompensi negli altri, perché non appena parto con ‘sti pipponi c’è subito un fuggi fuggi generale di chi ho attorno. Mia moglie Francesca, mia figlia Teresa, tutti. Che ci posso fare? È la mia filosofia di vita, che mi porta a cercare un senso in tutto quello che accade.

Hai lavorato per Montanelli.

(ride) Mi chiamò Aldo Vitali e mi disse che Indro Montanelli mi aveva visto in tivù e gli stavo molto simpatico. Così mi chiesero di scrivere ogni tanto dei colonnini per La voce. Era il 1994. Lo feci con grande imbarazzo, perché sentivo di non essere in grado. Neanche mi rileggevo. Montanelli però non l’ho mai incontrato. E ho saputo che alla Voce c’era pure Travaglio solo pochi anni fa.
Dell’intervista che ti fece Enzo Biagi che ricordo hai?

Per la prima volta sentii di avere reso orgoglioso mio babbo. Lui e Montanelli erano amatissimi in casa mia. Montanelli mi piaceva da morire. Io adoro i bastian contrari: Chesterton, mio padre, anche Ferrara. I rompicoglioni di talento, quelli arguti, in generale mi piacciono. Tu sei sulla buona strada.
Grazie, però tu sei l’opposto del bastian contrario.
Verissimo: io sono un ecumenico pacificatore che cerca di accogliere tutti. Un ruolo che assolsi anche nel tour con Daniele e Ramazzotti. Lì ero proprio Kofi Annan! Pino ed Eros si adoravano, ma tra loro era un battibecco continuo. Tipo Vianello e Mondaini. La produzione era di Ramazzotti, e Pino si convinse che a me e a lui ci abbassassero il volume. Una cosa totalmente falsa. Erano arrivati al punto che si incontravano solo sul palco.
Però si volevano bene.
Molto. Pino gli ha pure regalato una delle chitarre più importanti della sua vita. Pino era davvero divertente. È stato il primo artista che ho visto dal vivo, avevo tredici anni: pensa la mia emozione nel ritrovarmi a cantare con lui sul palco. Mi voleva bene e si appoggiava letteralmente a me. Era diventato cieco quasi del tutto, e questo suo fidarsi di me mi riempiva di orgoglio. Pino sta nell’iperspazio, un gigante che metto accanto a Stevie Wonder e Prince.
Di grandi ne hai incontrati parecchi.
I grandi sono sempre grandi. Quando ti dicono “sì ma nella vita quello lì è uno stronzo”, non è mai vero: se fanno musica da 40 anni e sono sempre lì, vuol dire che hanno tanto da insegnarti. Poi magari hanno un caratteraccio, ma il carattere non conta niente nella vita. Puoi avere un pessimo carattere ed essere un uomo eccezionale.
Fammi dei nomi.
Battiato: mi hanno sempre affascinato i suoi mondi lontanissimi. Celentano, forse il mio preferito: ha l’istinto per lo spettacolo di un leone della savana. Morandi: un maestro vero, anche per il rispetto per il pubblico. A volte noi artisti ci annoiamo a eseguire le canzoni vecchie, lui invece riesce a essere vitale anche quando rifà Fatti mandare dalla mamma. E quella cosa lì mi ha rimesso in pace con La mia moto. La musica è una macchina del tempo. Magari a te quella canzone non dice più nulla, ma a un altro ricorda la prima volta in cui ha impennato col motorino. E di queste cose devi avere rispetto.
Dalla?
Arrivava a mezzanotte nella sua pizzeria preferita di Bologna. Io ero lì con Carboni e Mauro Malavasi (storico produttore di Carboni, ndr), e minimo si faceva le 5 di notte parlando solo di massimi sistemi. Una sera arrivò tutto entusiasta: “Ho visto il Dracula di Coppola, mi è piaciuto così tanto che domani ci faccio un disco”. Un’altra volta gli chiesi come facesse a cantare sempre così bene. Mi rispose dicendo che lui cantava come se la sua voce fosse un clarinetto. Il giorno dopo chiamai Demo Morselli e gli chiesi di insegnarmi a suonare la tromba, infatti sono diventato più intonato. E poi mi rivelò un segreto: scrivere le canzoni usando solo i tasti bianchi.
Perché?
Perché a quel punto sei sempre in tonalità di Do e La minore, e quindi non sbagli mai.
Dalla era un insegnamento continuo e se ne compiaceva. Sapeva di essere un maestro e al tempo stesso adorava “rubare” ai più giovani. In un’occasione lo incontrai al Cocoricò di Riccione, era nascosto in un angolo. “Lucio, che cazzo fai, sono le tre di notte!”. E lui: “Vengo qui a osservare, studio, faccio l’antropologo”. Era anche un bugiardone, diceva davvero un sacco di bugie. Persona fantastica.
Ligabue, Ferretti.
Luciano è un uomo con un grande senso pratico, che possiede come pochi “il mestiere” e “l’ispirazione” di scrivere canzoni. Molto più di me. Era già così quando collaborammo a Il mio nome è mai più. Giovanni Lindo è un bastian contrario straordinario e un grandissimo autore. C’è stato un periodo in cui l’ho frequentato spesso, andavo anche a casa sua a Cerreto Alpi. I CSI sono stati il più grande gruppo italiano degli Anni Novanta. Aprirono le date di un mio tour estivo nel 1997. Ricordo le continue litigate furiose tra lui e Zamboni, per esempio sulla beat generation. Io stavo leggendo Big Sur di Kerouac, e Ferretti mi gelò: “Anche a Zamboni piace quella merda”. Poi arrivò Zamboni e gli dette del “coglione”. E io a mediare, da buon ecumenico come sempre.
Carboni, Cremonini.
Luca è un fratello, gli voglio bene da sempre e mi ha voluto in tour con lui nel ’92, quando era molto più noto di me. Cesare è il nuovo pontefice del pop italiano e sono contento. L’avevo predetto. Non me ne frega un cazzo di essere stato il primo in questo o in quello, tranne che in una cosa: sono stato il primo blogger in Italia.
Eh?
Giuro. Avevo un sito, che all’epoca era di per sé una rivoluzione, e cominciai a scriverci “in diretta”. Si chiamava “Mumble Mumble”. Sarà stato il 1999. Selvaggia Lucarelli era nel mio fan club e ripete sempre di essersi ispirata a me per aprire il suo blog. Quindi si può dire che ho avuto la colpa o il merito (sorride, ndr) di avere ispirato la Lucarelli. Quando uscirono i Lunapop, come sempre la critica non ci capì una minchia e li stroncò. Io invece dissi che quel disco lì era una bomba e quel ragazzo avrebbe fatto molta strada.
Però sugli 883 hai sbagliato.
(sorride) Li avevo ospitati nel mio programma quando ancora cantavano in inglese e neanche si chiamavano 883. Due anni dopo, mi pare nel 1991, Mauro (Repetto, ndr) mi manda una cassettina. La ascolto e non mi dice nulla. La do a Cecchetto. Mezz’ora dopo Claudio torna e dice tutto entusiasta: “Questo disco venderà un milione di copie”. Ne ha venduti due.
Questa cosa del “pop sottovalutato” proprio non ti va giù. Tipo “Tozzi vale Guccini”.
In Inghilterra fanno i monumenti agli artisti pop. I Beatles sono un gruppo pop, il pop è la musica più bella che c’è. Invece in Italia il pop si snobba, perché è percepito come un sottoprodotto rispetto al cantautorato. Però per certi versi va bene così. La critica deve sbagliare e arrivarci dopo, altrimenti ti santificano in vita. E questo è tremendo: in vita devi essere divisivo.
Ti senti divisivo?
Sì, e Francesca (sua moglie, ndr) ne soffre. Io invece ringrazio il cielo. Nessuno mi vede come maestro e molti mi trattano come uno che deve ancora dimostrare tutto. Vengo dalla consolle, dal clubbing: contamino da sempre e le mie porte della percezione sono costantemente aperte. Una certa critica cantautorale non mi ha mai accettato sino in fondo, ma ci sta.
Leggi moltissimo.
Sì, ma la mia formazione letteraria umanistica non ha avuto nulla di letterario. Sono cresciuto con Pippi Calzelunghe, Mork e Mindy, Happy Days, Heidi, le pubblicità, i cartoni animati. Sono diventato un lettore vorace molto dopo.
Vengo dagli spot, dagli slogan. La generazione precedente alla mia è stata quella dei cantautori: una generazione problematica, mentre io non problematicizzo nulla. E anche questo mi ha tolto il diritto di accedere al mondo dell’intellighenzia e del Club Tenco, che comunque da ascoltatore apprezzo moltissimo.
Come ti definiresti?
Un assemblatore. Ho ascoltato così tanta musica – di qualunque tipo! – che, quando scrivo e salgo sul palco, il mio mestiere non è tanto quello di compositore, quanto quello di assemblatore.
Fammi un nome nuovo forte.
Più di uno, ma se deve essere solo uno scelgo Lucio Corsi. Lo seguo da sempre. Però occhio a essere retrò e dire frasi tipo “tornano i cantautori”: non torna mai un cazzo. È come per il fascismo: non torna nulla, le cose si ripresentano sempre in maniera diversa. E così Corsi: non è un cantautore dei Settanta, non è il nuovo Ivan Graziani. È Lucio Corsi.
La tua collaborazione più “strana”.
A Roccella Jonica, durante il Jovabeach, un tour importantissimo nel mio percorso. Io, Brunori e Toto Cutugno che cantiamo insieme L’italiano.
Sei un salutista irreprensibile.
Sto molto attento a cosa mangio e a cosa bevo. La mia unica droga sono le endorfine che mi dà la bicicletta, e per fare lo sport che faccio devo essere molto giudizioso. Ma mica solo io. Una sera mi trovai a cena con Bono e Mick Jagger. Bono è uno che si gode la vita anche a tavola, mentre Jagger proprio no. Bono lo guardava sconsolato, poi si girava verso me e diceva: “Non mangia niente questo qua!”. Come Springsteen, che va in palestra alle sette di mattina. Se vuoi restare sempre ad alti livelli, devi vivere una certa vita.
Come vivi lo scorrere del tempo?
Con curiosità. È un peccato vivere il tempo come una cosa che porta solo al declino. Invecchiare dà un sacco di possibilità, e credo che le cose migliori debba ancora scriverle. Vi stupirò. Io non ho mai dato troppa importanza al tempo. Vivo in una bolla di fantasia e sto anche troppo per i cazzi miei. Non mi sono mai percepito dentro un’età: quando mi chiedono quanti anni ho, ci metto sempre un po’ a rispondere.
Tra un anno ne farai 60.
Non credo che vivrò moltissimo, perché chiedo tanto al mio corpo e alla mia vitalità. E questa cosa la pagherò. Ma non ci penso con malinconia: la vita non è una questione di durata. Spero di morire “sazio di giorni”, come dice la Bibbia. L’età non è mai stata un problema: a me interessa la vitalità. La scintilla vitale cosmica è eterna.
Qui ricordi Battiato.
Certo, anche se sulla reincarnazione ho meno certezze di Franco. Di sicuro ci sarà un dopo e ancor più sicuramente c’è stato un prima. Quando è nata mia figlia Teresa, ho avuto un’epifania. Appena l’ho presa in braccio, ho percepito distintamente tutto il suo “prima”. Le dicevo: “Tu non me la racconti giusta, quanti ne hai fatte prima di arrivare qui?”. All’inizio la chiamavo “il palombaro”, perché mi pareva proprio riemersa da un abisso.
Cremonini ha l’urgenza di lasciare qualcosa della sua arte. Di te cosa vorresti che restasse?
Non lo so. Forse il mio slancio vitale. Credo che tutta la mia carriera poggi sul tentativo di portare uno slancio vitale nella canzone italiana. Qualche bel brano credo di averlo scritto, ma le canzoni passano. Lo slancio vitale no.