il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2025
Dazi, il colpo di Trump alle grandi imprese Usa
Il Liberation Day scatenato da Donald Trump sui dazi non ha solo ridotto di migliaia di miliardi di dollari la capitalizzazione delle società quotate in Borsa. Ha anche ribaltato le strategie industriali di quei colossi che in questi anni hanno delocalizzato molti dei loro servizi e produzione. L’Asia, che è il centro della delocalizzazione Usa, rappresenta il caso più clamoroso. Molte aziende americane – per esempio Apple – hanno in questi anni allargato le loro operazioni manifatturiere al di fuori della Cina, verso l’India e i Paesi dell’Asean, in particolare Vietnam, Cambogia e Laos, dove i costi di manodopera sono bassissimi. Un rapporto di Boston Consulting Group del settembre 2023 fotografa questa realtà. Il 90% delle aziende nord-americane hanno, a partire dal 2018, ricollocato parte della loro produzione e della fornitura di beni e servizi. Tra le ragioni della migrazione: le tensioni politiche e commerciali tra Washington e Pechino; la necessità di diversificare la supply chain; i vantaggi fiscali e di reperimento della forza-lavoro.
Tra il 2018 e il 2022, le esportazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti sono diminuite del 10%. Quelle dall’India sono aumentate del 44%, del 65% dai dieci Paesi dell’Asean (Sud-Est asiatico). I dazi di Trump cambiano tutto. Il Vietnam è stato colpito da dazi del 46%. La Cambogia del 49%. La Thailandia del 36%. Per le grandi aziende statunitensi e per i loro fornitori diventa molto difficile mantenervi le attività. Gli effetti del terremoto si allargano al di là della produzione industriale. Ecco alcuni delle industrie e dei marchi Usa più colpiti dalle tariffe di Trump.
Settore tecnologico. Giovedì, il giorno successivo all’annuncio di Trump, Apple ha perso più di 300 miliardi di capitalizzazione, il peggior risultato dal 2020 per la società quotata di maggior valore al mondo. Del resto, Apple produce buona parte dei suoi hardware in Cina e ha allargato la sua presenza in India e soprattutto in Vietnam, dove l’azienda di Cupertino collabora con altre aziende dell’high tech come Foxconn, Luxshare, Intel, Samsung, LG. Vietnam. Il 20% di tutti gli iPad, il 65% degli AirPods e il 5% dei MacBook vengono prodotti in Vietnam. Cattive notizie per Nvidia, leader nel computing con intelligenza artificiale, che ha perso 210 miliardi del suo valore di mercato dopo che Trump ha imposto dazi del 32% su Taiwan, dove l’azienda produce buona parte dei suoi semiconduttori. Futuro incerto anche per Amazon, sulla cui piattaforma i rivenditori cinesi occupano una quota di mercato superiore al 50%. Il colosso di Jeff Bezos e altre grandi aziende di e-commerce come eBay dovrebbero comunque essere attrezzate a reggere possibili urti. Le loro commissioni sono infatti destinate ad aumentare con l’aumento del prezzo dei prodotti. Un discorso diverso va fatto per piattaforme di elaborazione dei pagamenti come Stripe. Se le piccole imprese aumentano i prezzi causa tariffe, è probabile che i consumatori acquistino meno prodotti online. E poiché queste piattaforme ottengono la maggior parte dei loro ricavi dalle commissioni per l’elaborazione delle vendite, un calo nel volume delle vendite potrebbe influenzare tutte le loro attività.
Moda e vendita al dettaglio. La Nike Air Jordan 1 è la più iconica tra le scarpe sportive americane, creata quattro decenni fa per la leggenda del basket Michael Jordan. Nei prossimi mesi, potrebbe costare di più. Sebbene Nike venda la maggior parte dei suoi prodotti negli Stati Uniti, il 95% di tutte le sue scarpe sono realizzate in Cina, Vietnam e Indonesia (colpita da dazi al 32%). Il 60% delle sue linee di abbigliamento sono prodotte tra Cina, Vietnam e Cambogia. Non sorprende dunque che giovedì mattina le azioni di Nike siano crollate del 13%. La banca svizzera Ubs prevede che i costi per tutti i beni provenienti dal Vietnam saliranno nei prossimi mesi di almeno il 10%. Nike è marchio solido, ma non è certo che il volume delle sue vendite reggerà l’aumento dei costi. Sorte simile per altri marchi di abbigliamento, da H&M a Adidas a Levi’s. Le azioni di Gap, i cui fornitori sono concentrati soprattutto in Vietnam, sono crollate dopo l’annuncio di Trump di oltre un quinto. In difficoltà anche storici marchi della vendita al dettaglio come Walmart, Macy’s e J.C. Penney, che importano molti dei loro prodotti dall’estero. Significativo il caso di Best Buy. Circa il 55% dei suoi prodotti – televisori, smartwatch, cuffie – arriva dalla Cina. Il 25% dal Messico. Giovedì 3 aprile le azioni dell’azienda sono scese del 13%.
Industria automobilistica. Per la sua intricata rete di forniture internazionali, per la delocalizzazione cui è stato soggetto in questi anni, il settore automotive è tra quelli più colpiti dall’imposizione dei dazi. È anche quello che sta reagendo con più velocità alle nuove regole. In risposta ai dazi del 25% su veicoli e componenti auto importati, General Motors ha trasferito parte della produzione dei suoi camion Chevrolet Silverado e GMC Sierra allo stabilimento di Fort Wayne, Indiana. Da parte sua, Nissan ha annullato un precedente piano di riduzione dei turni di lavoro nello stabilimento di Smyrna, Tennessee, in modo da aumentare la produzione interna ed evitare importazioni di componenti da Giappone e Messico. In entrambi i casi le aziende hanno dovuto sostenere significativi adeguamenti, che promettono di condizionare a lungo operatività e produzione dell’industria automobilistica.
Finanza. I dazi colpiscono i beni, non i servizi finanziari. Eppure, dopo l’imposizione dei dazi, JPMorgan Chase e Goldman Sachs hanno perso, complessivamente, 279 miliardi di dollari di valore di mercato. Le azioni di American Express sono scese del 10%, Visa del 2% e Mastercard del 3%. Volatilità del mercato e possibili pressioni recessive introdotte dai dazi hanno quindi pesantemente toccato anche questo settore.