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 2025  aprile 06 Domenica calendario

Linus: «Il mio segreto? Più invecchio, più mi sento libero. Radio Deejay? Dopo 38 anni non saremo più a Riccione, quindi per noi niente estate. Cosa resterà di Sanremo 2025? Nulla. Solo "Cuoricini"»

Strano ma vero, più capelli bianchi ha in testa e più ha l’aria di quello che finalmente se la gode anche fuori dalla comfort zone del suo studio radiofonico. A quasi un anno dal debutto in teatro – all’Alcione di Milano – il 67enne Linus il 16 e 17 aprile sbarca al Parioli di Roma con il suo show Radio Linetti Live. Due ore di musica e chiacchiere a 360 gradi – sulla sua vita e sul mondo dello spettacolo, più amarcord di vario tipo – nate dopo le dirette Instagram fatte durante il lockdown e grazie a Bruce Spingsteen («Quando il Boss per un mese è andato da solo in un teatrino di Broadway mi si è accesa una lampadina: non so cantare, però...») che hanno fatto registrare sempre il tutto esaurito per il direttore artistico e la voce storica di Radio Deejay.
Fin qui la cosa più importante che le ha insegnato questa nuova esperienza qual è?
«A recuperare quella parte di me che avevo accantonato in funzione della squadra. Fare il capoclasse, l’allenatore, a volte anche il bidello, mi piace, ma un po’ ha oscurato la mia vera natura».
E quale sarebbe?
«Tutti noi siamo una cosa e poi tantissime altre. Io molte volte mi sono chiesto: preferisci essere il direttore della radio o un artista? Ho sempre scelto la seconda risposta perché io quello sono. Magari pessimo, ma quello».
Allora oggi come si presenterebbe?
«Dipende dall’interlocutore. Adesso, con tutti i capelli bianchi che ho, solo il mio nome d’arte mi mette un po’ in imbarazzo.
Comunque, se voglio sembrare un adulto, dico direttore artistico e tutto il resto. Se voglio sembrare quello che sono veramente, un artista».
E poi?
«Sono una brava persona, curiosa e generosa, anche se questo lo dicono pure i mafiosi. Non ho mai conosciuto uno stronzo che non fosse convinto di essere il contrario. Certo, mi rendo conto che è una autovalutazione un po’ opinabile».

Infatti di lei spesso si sente dire: quello è un po’ carogna...
«Lo so, lo so. È partita tutto da quegli infami di Elio e le Storie Tese che si sono sempre divertiti a disegnarmi come un despota. Una volta insieme abbiamo fatto anche un film di Natale in cui io facevo Scrooge. Insomma, fare la parte del cattivone mi piace, i cattivi sono più affascinanti dei buoni, solo che qualcuno ci crede davvero. Mi difendo dicendo sempre che se io fossi davvero così permetterei mai a quelli che lavorano con me di definirmi in quel modo?».
Per uno abituato alla radio com’è sentire il respiro della gente in sala?
«Meraviglioso. Noi radiofonici siamo ossessionati dal respiro, dal silenzio, mezzo secondo in più fra una parola e l’altra e subito ci viene l’ansia. All’inizio vedere la gente attenta e zitta mi ha impressionato: sembravano annoiati. Poi quando mi sono abituato alla concentrazione degli altri, è stato bellissimo. A me aiuta a entrare nel dettaglio delle cose che voglio raccontare».
La sorpresa maggiore?
«L’importanza, anche esagerata, che gente come me ha nella vita di chi ci segue. Insomma, dopo tanti anni un piccolo spazio sapevo di averlo, però constatarlo di persona è emozionante. Quando finisce la serata mi fermo sempre a salutare, abbracciare, e fare foto con tutti. Sono un romanticone d’altri tempi».
È vero che il nome dello spettacolo gliel’ha dato Faso di Elio e le Storie Tese?
«Sì. Finora ho fatto una trentina di date e temo che mi toccherà farne altrettante il prossimo autunno».
Teme?
«Ho detto una balla. In verità non vedo l’ora di farle. Mi piace l’imprevedibilità. A Bologna c’è stato un siparietto molto bello perché tra i personaggi di cui parlo c’è anche Morandi, che è una figura nella quale io mi rivedo molto, perché siamo entrambi maratoneti, precisi ed eterni ragazzi. In sala c’era Rudy Zerbi e quando ha sentito che parlavo di Gianni lo ha chiamato e mezz’ora dopo lui era sul palco a ridere e giocare. È stato bellissimo».
Nello spettacolo legge il bel monologo “Accetta il consiglio” che, nel finale del film del 1999 “The Big Kahuna” di John Swanbeck, viene letto da Danny DeVito – nel cast ci sono anche Kevin Spacey e Peter Facinelli – tratto da un articolo di Mary Schmich, giornalista del Chicago Tribune, pubblicato il 1º giugno 1997. In pratica, un lungo elenco di considerazioni e suggerimenti esistenziali. Fra i tanti, quello di conoscere i propri genitori: ce l’ha fatta o con loro è rimasto qualcosa in sospeso?
«I miei erano semplici, più impegnati a sopravvivere che a raccontarsi. Non ho rimpianti: ci siamo detti tutto quello che c’era da dire e ci siamo voluti bene. Mio padre non c’è più da vent’anni e mia mamma da trenta, ma sono ancora molto presenti in me».
In quel monologo, di cui nel 2002 lei fece anche un remix, si dice di conservare le lettere d’amore e buttare gli estratti conto: c’è riuscito?
«Sì. Ho quelle di mia moglie, più che altro bigliettini. Bellissimi. Io scrivo solo quando sono arrabbiato e voglio fissare il mio punto di vista».
Vi siete scritti anche durante i due anni in cui vi siete presi una pausa?
«Sì. In radio, nonostante io faccia a volte una rappresentazione comica della mia vita e di quello che mi succede, nessuno si è mai accorto che il mio Mulino Bianco per due anni è stato chiuso. Non è stato facile».
In “Accetta il consiglio” c’è scritto che “I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente, di quelle che ti pigliano di sorpresa alle quattro di un pigro martedì pomeriggio”: è vero anche per lei?
«Sì. Ed era proprio un martedì pomeriggio. Nel 2015, a Riccione, stavamo per uscire di casa per tornare a Milano quando mio figlio cadde in casa, prese un colpo al midollo, e per una settimana non camminò più. Ricordo perfettamente quei primi minuti in cui ero pronto a ribaltare tutta la mia vita. Che paura».

Nel 2027 si vota per il nuovo sindaco di Milano. A lei in più occasioni il Pd le ha chiesto di candidarsi: stavolta accetterà?
«Non credo. Non fa per me. Ho smesso anche di fare il consigliere di Sala per lo sport. Non ho tempo».

Lei lo sa più di tanti altri: cosa resterà delle canzoni dell’ultimo Sanremo?
«Stiamo vivendo una stagione di transizione...».

Andiamo, Linus.
«Nulla. Sono passati due mesi, la sola canzone del Festival di quest’anno di cui ci ricorderemo fra dieci anni sarà Cuoricini dei Coma Cose. Il resto, carine. Punto. Lucio Corsi e Brunori si conoscevano da anni e hanno fatto sicuramente di meglio».

E Olly?
«Un bel personaggio. Carino. Prima di dire che sia il futuro della musica italiana aspetterei un attimo».

Due giorni fa ha detto con amarezza che dopo 38 anni Radio Deejay non sarà a Riccione perché «qualcuno aveva già deciso da tempo»: qualcuno chi?
«Una parte dell’amministrazione comunale, il perché bisogna chiederlo a loro».

E adesso, l’estate di Radio Deejay dove si farà?
«Da nessuna parte, ormai è tardi».

La medaglietta che sente di meritare ma che ancora non ha sul petto qual è?
«Devo essere sincero, faccio parte di una generazione che rappresenta il mondo dello spettacolo italiano. Sono contemporaneo di Gerry Scotti, Fiorello, Jovanotti, Amadeus, Fabio Fazio, Paolo Bonolis ed altri. La sensazione che facendo il loro stesso lavoro, però in radio, sia sempre stato il primo della serie B, mi sta un po’ sul cazzo. Ecco, l’ho detta».

A settant’anni dove si vede?
«Non lo so, ma non credo in radio».

Ha una exit strategy?
«No, però non voglio che la gente dica: Linus è ancora qui? Il mio contratto scade fra un anno e allora ci penserò».

Rotola ancora dalla porta per uscire dalla Porsche Targa o l’ha venduta?
«No. Ce l’ho ancora, però rotolo sempre. La schiena è quella che è. E tutto questo è veramente una metafora della vita: salirci è facile, scendere è difficilissimo».