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 2025  aprile 05 Sabato calendario

Bollani:“La musica è un’eresia”

Cominciamo dal titolo. Perché stravaganza?
«Mi piace il suono, promette tanto con quello “stra”. E “vaganza” è un po’ come vagare, ma vagare moltissimo. Anche l’aggettivo stravagante mi garba parecchio: io amo la compagnia degli stravaganti».
Immaginiamo si riconoscerà nella categoria.
«In effetti, sì. Quando mi giudicano stravagante, lo considero un complimento».
Il suo narratore ci guarda da lontano, ma cosa vede? Cosa pensa di noi?
«Ha un occhio non giudicante.
Sembra ingenuo, in realtà non ci vuole strapazzare troppo. Ha capito le nostre presunzioni, ad esempio quella di comunicare con troppe parole, e la tracotanza del verbo essere che usiamo di continuo, assertivamente. Ma in questo mio alieno sento un sorriso».
Che è anche il suo?
«Direi di sì. Penso di essere una persona che sa ascoltare. Sono molto felice di vivere in un’epoca in cui qualcuno organizza convegni sulla terra piatta. Il pensiero libero mi fa simpatia, e comunque sarebbe un bel colpo cadere dal bordo della terra come sporgendosi da un balcone, no?».
L’eresia la stimola?
«Senza gli eretici, il mondosarebbe immobile. Penso a Beethoven, che nel libro viene convocato insieme a molti artisti che fanno fortemente parte della mia vita: lui, con la musica, fece cose che non stanno né in cielo né in terra, perché alla fine proprio lì stanno: in cielo, e soprattutto qui in terra, per renderla migliore».
Beethoven, Leonardo da Vinci, Charlie Parker, Francesco d’Assisi, Calvino nel senso di Italo: che ci fanno tutti insieme, nella stravaganza?
«Gli sciamani e i geni sono sempre contemporanei tra loro. È come se vivessero seduti nella medesima stanza, dentro il nostro tempo interiore. Hanno formato le nostre esistenze e non smettono di farlo.
Gli artisti ci ricordano con l’esempio che la creatività è importante».
Lei immagina che John Lennon e Yoko Ono abbiano salvato tutti i dischi del mondo in una sorta di Arca di Noè.
«In questo modo, salvano l’anima dell’umanità. L’arte è tutto ciò che resterà del nostro tribolare: tutto ciò che la bellezza canta, rimarrà e ci salverà».
Nel suo narrare, i Beatles ricorrono molto.
«Sono un loro fan, naturalmente, in particolare dei due che non ci sono più. Perché John e George erano le anime tormentate, mentre Paul e Ringo sono cuor contenti e infatti stanno invecchiando».
C’è una pagina in cui Bach e Stevie Wonder passeggiano e
parlano: per dirsi cosa?
«Me lo chiedo anch’io. Ma penso che, alla fine, si metteranno a suonare insieme con l’immediata confidenza di una jam session».
Cos’ha la musica più delle altre arti?
«Non le servono parole per farci vibrare e non passa dal cervello: per gli antichi era la lingua degli dèi. Noi abbiamo dimenticato che la musica, oltre a essere spettacolo, è cura e rito. Cantare insieme è un’idea di futuro».
È stato l’inconscio a farle nominare alcuni musicisti e non altri?
«Ognuno di loro è dentro di me per un motivo mio: sono tutti amori.
Paganini rappresenta il modo diverso di fare musica, Ravel e Jobim il mio gusto più profondo».
Cosa sta ascoltando in questo momento?
«Dopo due mesi di George Harrison ogni santa mattina, a manetta, povera Valentina mia (la moglie, ndr )da tre giorni sono passato ai dischi da solista di John Lennon. Ed è un riascolto che mi commuove ogni volta».
Cosa significa “la presunzione di comunicare con troppe parole”?
«Indica fragilità. La linea cade senza preavviso, come a volte al telefono. Il mio narratore sa che la nostra civiltà è un esperimento, quindi serve pazienza: ma lo sguardo che ci arriva dal futuro è indulgente».
Che rapporto ha con la scrittura?
«La pratico mentre faccio altro esenza vincoli, con estrema libertà. Se non avverto un’urgenza, non scrivo neppure una riga».
Ci dica un paio di parole che ama.
«Entusiasmo e dedizione. Sono stupefatto di quanto il genere umano ancora le applichi con un coraggio mai abbastanza lodato, pur sapendo di poter morire da un momento all’altro».
La sua scrittura, quella narrativa intendiamo, segue uno spartito?
«Ho iniziato questo libro improvvisando, come quando compongo al pianoforte. Parto dal presupposto che l’artista voglia sentire una cosa che ancora non c’è, e allora la fa. Il desiderio di qualcosa che non esiste assomiglia molto all’amore, contraddizioni comprese. Come scrive Queneau, gli esatti contrari sono molto interessanti. Oppure Brahms, che sosteneva di non avere scritto mai neppure una nota ma di averle colte in una sorta di luogo dove lui entra, attinge, e grazie alla tecnica le porge a noi».
A proposito di tecnica: lei come la vede, con l’intelligenza artificiale? Gli alieni venuti dal futuro la incarnano, oppure ne sorridono?
«Beethoven non sapeva tutto, l’intelligenza artificiale sì. Ma ho l’impressione che farà tanta fatica con il linguaggio: da lì nasce ogni cosa, anche il pensiero. Non credo che l’intelligenza artificiale saprà dar conto della straordinaria varietà del mondo».
A chi appartiene un capolavoro?
«A tutti, ed è sempre più importante della persona che lo ha realizzato, conta più del nome dell’autore. Possiamo inventare biografie e cavalcare eteronimi, non possiamo reinventare i capolavori prodotti dall’uomo».
Cos’è “la tracotanza del verbo essere”?
«Io sono, tu sei, questo è bene, questo è male, io sono israeliano, lui è palestinese. Il verbo essere asseconda il pensiero duale e manicheo, di cui il mio alieno si stupisce molto, perché non riesce a comprenderlo. Il pensiero duale non spiega: pretende di tagliare la realtà con il coltello».
Come si smaschera?
«Forse con una semplice parola seguita da un punto interrogativo. Dobbiamo sempre chiedere: cioè?».