Corriere della Sera, 5 aprile 2025
Il doppio destino della X Mas
«Li comanda belzebù / Ch’è il capo banda / E una stella di lassù / Li veglia in branda», cantavano gli incursori della X Mas nel loro inno. E fu sentendo fischiettare quel motivetto in una cella vicina che la vigilia di Natale 1941 i prigionieri italiani capirono d’essere rimasti vivi tutti e sei e d’essere tutti lì, nel carcere del Cairo. Un miracolo. Perché lo stesso canto, fatto l’occhiolino a belzebù, proseguiva con presagi funesti: «Ma se un giorno egli scompar / Non lo cercare / Ché nessuno ti potrà dir / Ch’è in fondo al mare».
Macché, ce l’avevano fatta: a cavallo di «maiali» subacquei erano riusciti giorni prima a penetrare l’impenetrabile porto di Alessandria d’Egitto e a metter fuori uso con le loro cariche esplosive due navi da guerra orgoglio della Marina britannica, la Queen Elizabeth e la Valiant, più una gran petroliera che scoppiando ne aveva incendiata un’altra.
Certo, dopo li avevano presi. Ma vivi. E fieri di un’impresa che avrebbe loro guadagnato, ancora prima che la guerra finisse, la stima stupefatta dei nemici attaccati in quel modo spettacolare. E colpiti dalla scelta degli italiani, dopo la cattura, di avvertirli delle esplosioni in arrivo perché le navi affondassero ma gli equipaggi si potessero salvare.
Non uno di quei sei «eroi d’Alessandria» esaltati all’epoca dal fascismo, sarebbe finito nella Repubblica di Salò. Non uno. A partire da quel Luigi Durand de la Penne, marchese di origini nizzarde che era il condottiero del gruppo e sarà eletto dopo la guerra parlamentare nella Dc degasperiana antifascista. Al contrario d’una vulgata ambigua titillata in tempi recenti da nostalgici come Roberto Vannacci che gioca spesso su quella X della «Decima», decisero di non tradire il re per il Duce. C’è chi dirà: ovvio, erano destinati ai campi di detenzione in Africa, India o chissà dove. Vero. Chi riuscì a rientrare a conflitto ancora in corso, però, non ebbe dubbi. E tornò a combattere, ma con gli Alleati.
Ed è questo che Alfio Caruso, giornalista e storico, autore di Noi moriamo a Stalingrado; L’Onore d’Italia. El Alamein; Tutti i vivi all’assalto. L’epopea degli alpini dal Don a Nikolajevka, vuole spiegare nel libro Incursori del re. La vera storia della X Mas, appena pubblicato dall’editrice Neri Pozza: non solo i sei di Alessandria ma la larghissima maggioranza dei «marò», l’élite della Marina militare, non scelse affatto di schierarsi con quel Junio Valerio Borghese che dopo l’8 settembre avrebbe fatto della «Decima» una milizia di rastrellatori di partigiani e civili sequestrati per le rappresaglie al fianco del Terzo Reich nazista che aveva occupato l’Italia. E proprio con quel rifiuto salvò l’onore di quella «straordinaria genia di fuori di testa», per usare le parole dell’autore, che aveva inventato, prima al mondo, la guerriglia subacquea. In cui piccoli David a cavalcioni di un siluro si fiondavano con le loro cariche di tritolo contro giganteschi Golia corazzati.
Da che parte stare
L’inventore della Torpedine Semovente Rossetti, la celebre «mignatta» (sanguisuga) esplosiva che si attaccava ai fianchi delle navi e fu la pioniera di tutti i successivi «maiali», fu il primo a dire da che parte stava. Si chiamava Raffaele Rossetti, era un ufficiale ingegnere genovese e nell’ottobre 1918 con Raffaele Paolucci pilotò lui stesso il siluro di otto metri con 175 chili di tritolo (spinto per dieci miglia ad aria compressa e poi trascinato a nuoto in vista del bersaglio) dentro il porto allora austriaco di Pola per affondare la Viribus Unitis, la nave ammiraglia della marina austroungarica. Sposata nel 1943 una donna ebrea, fondatore nel 1944 del movimento Italia libera, repubblicano convinto, pestato nel 1945 da una squadraccia fascista per aver difeso Gaetano Salvemini, fu costretto a emigrare in Francia e poi in America, umiliato dalla revoca della medaglia d’oro, restituitagli dall’Italia democratica solo a guerra finita.
Né fu diversa la scelta degli ultimi incursori, il sottotenente di vascello Nicola Conte e il sommozzatore Evelino Marcolini che, rifiutata l’opzione repubblichina, si unirono al Fronte militare di resistenza per entrare nella Mariassalto (l’unità della Marina Cobelligerante italiana guidata dal capitano di vascello Ernesto Forza, medaglia d’oro e già comandante della X Mas) e il 19 aprile 1945, nel porto di Genova occupato dai nazisti del contrammiraglio Günther Meinhold, fecero esplodere la portaerei Aquila.
Di fatto, spiega Alfio Caruso, «degli uomini che erano il perno della “Decima” al momento dell’armistizio, quelli che contavano e decisero di schierarsi con Mussolini e il Terzo Reich furono quattro: il principe Borghese che a guerra finita sarà protetto dagli americani perché anticomunista, diventerà presidente del Msi e tenterà nel 1970 il “Golpe dell’Immacolata” fallito sul nascere, il comandante degli Uomini Gamma Luigi Ferraro e l’esule russo Eugenio Wolk che resteranno comunque estranei agli eccessi, e il peggiore di tutti, il capitano Ongarillo Ungarelli». Lui sì protagonista, scriverà lo storico Mimmo Franzinelli, di rastrellamenti, eccidi e rappresaglie come quella di Borgo Ticino dove, dopo il ferimento di tre nazisti, incendiò una cinquantina di case e passò per le armi tredici ostaggi. Una carneficina. Come feroci furono altri miliziani usciti dalla «Decima», su tutti il tenente di vascello Umberto Bertozzi, «seviziatore compulsivo» che finirà arrestato per «atti di violenza e sadismo, nonché per vergognose accuse di natura morale», quale responsabile di un «reparto autonomo con tutti i caratteri della banda irregolare».
Vicende terribili. Ma bastano a infangare gli «Incursori del re» che nella Seconda guerra mondiale erano stati sì schierati dal regime dalla parte sbagliata della storia, ma riuscirono comunque a ottenere non solo 31 medaglie d’oro (per aver affondato o messo fuori uso 200 mila tonnellate di navi avversarie) ma anche il rispetto se non l’ammirazione degli stessi inglesi al punto che Charles Morgan, che era stato al comando della Valiant, volle consegnare la medaglia d’oro a guerra vinta al suo affondatore Durand de la Penne? No, risponde Caruso. Che partendo dal mitico Teseo Tesei che battezzò ironico quei siluri col nomignolo di «maiali» e morì in un’impresa disperata a Malta, ripercorre la storia di quei ragazzi che si mettevano in groppa ai siluri elettrici in rischiosissime cavalcate di ore e ore nel buio delle acque profonde mai più imitate da altri nel mondo. Avventure rese possibili solo da uno straordinario «rapporto d’amore con il mare».