Corriere della Sera, 5 aprile 2025
Intervista a Roberto Visentini
Roberto Visentini, quando lei lasciò il ciclismo il quotidiano francese l’Equipe scrisse: «Di famiglia benestante, corridore dal talento sconfinato e mai completamente espresso. Dominò il Giro d’Italia 1986 dopo essere arrivato secondo nel 1983 quando un regolamento assurdo regalò la vittoria a Giuseppe Saronni. Perse anche quello del 1987 per il famigerato “tradimento di Sappada” da parte del compagno Stephen Roche».
«Non hanno aggiunto che amavo le belle donne, le macchine potenti e la dolce vita. Lo scrivevano in tanti. Famiglia benestante, fa ridere».
Non lo era?
«Mio nonno, falegname, nel 1930 decise di dedicarsi prima a costruire casse da morto e poi ai funerali. Quando moriva qualcuno, lui prendeva le misure e costruiva la cassa. Poi via a cavallo con il cofano sul carretto verso la montagna, i paesini sperduti del Garda bresciano: vestiva la salma, la portava in chiesa, la tumulava».
Quella diventò l’attività di famiglia.
«Le Onoranze Funebri Visentini stanno per compiere cento anni. Papà prima affiancò e poi rimpiazzò nonno. Da bambino sapevo che sarebbe stato anche il mio lavoro».
Perché?
«Lo sentivo: a tuo agio con la morte ci devi nascere. Sapevo che il ciclismo sarebbe stato provvisorio. Quella della famiglia benestante è una balla: già con i primi stipendi guadagnavo più di papà».
Come finì su una bicicletta?
«A casa mia nessuno seguiva il ciclismo. Da ragazzino amavo il cross e chiesi a mio padre una moto: lui mi regalò una bici. Dopo poco tempo trovai posto in una squadretta di ragazzini».
Andava forte, in bici.
«Già da esordiente vincevo tutte le corse per distacco. Fui il primo italiano campione del mondo in linea tra gli juniores e appena passato professionista, nel 1978, conquistai la maglia bianca di miglior giovane al Giro».
Tutto le veniva facile.
«Facevo grandi sacrifici pur essendo sicuramente dotato, ero un professionista scrupoloso: uscivo la mattina presto e passavo ore ad allenarmi. Però portavo i capelli lunghi e ben pettinati, mi piacevano automobili e motociclette e, orrore, vestivo con cura e amavo anche sciare. Per i perbenisti del ciclismo ero il figlio di papà che amava la bella vita, una pecora nera tra i corridori-contadini che andavano per la maggiore».
Che anni erano, quelli?
«Anni brutti, si fidi. So poco del ciclismo di adesso ma invidio chi corre: ci sono manager capaci, bravi allenatori, fisioterapisti qualificati. All’epoca circolavano personaggi da paura, praticoni e santoni, massaggiatori che si improvvisavano infermieri, infermieri che giocavano a fare i medici, meccanici che oltre a preparare i panini decidevano le tattiche di gara. Tante corse venivano decise a tavolino. Fidarsi era pericoloso. E io, per carattere, mi fidavo. Ne ho prese di fregature».
C’erano grandi campioni, però.
«C’era Bernard Hinault una spanna sopra tutti, un fenomeno: alla partenza lo vedevi stravaccato in macchina con le gambe fuori dal finestrino come un turista scocciato. In corsa diventava una belva. Moser era un grande per tigna e fame di vittorie. Saronni, tanta classe ma meno voglia di fare fatica di Francesco».
Lei ha vestito la maglia rosa per 27 giorni complessivi nelle dodici edizioni del Giro a cui ha partecipato, siamo ai livelli di Coppi, Girardengo e Indurain.
«Arrivai secondo nel 1983 dietro a Saronni. Per far vincere lui e Moser, popolarissimi al contrario di me, l’organizzatore Torriani s’inventò abbuoni mostruosi di 30, 20 e 10 secondi per i primi tre di ogni tappa. Io guadagnavo tempo in salita, Beppe accumulando abbuoni. Senza quel regalo avrei vinto a mani basse».
Si rifece nel 1986.
«Battendo proprio Saronni, Moser e Lemond. Non ce n’era per nessuno».
Poi il fatidico 1987.
«Dobbiamo tornarci sopra? A metà Giro, dopo la cronometro di San Marino, avevo quasi tre minuti di vantaggio sul mio compagno Stephen Roche. Stavo da dio. Due giorni dopo, nella tappa di Sappada, Roche uscì dal gruppo per inseguire una fuga insignificante. Un tradimento, una bestemmia tattica. Mi abbandonarono i gregari, mi abbandonò l’ammiraglia dove al comando c’era Davide Boifava, team manager senza polso. Rimasi alla deriva in maglia rosa, i corridori delle altre squadre che mi compativano allibiti. Moser mi disse: “Devi spaccare la faccia a tutti”. Persi sette minuti e il Giro».
La sua versione dei fatti?
«Tradimento studiato a tavolino. Volevano un vincitore straniero per interessi di sponsor e Roche era un tipo disposto a tutto».
Con lui, che quell’anno vinse anche Tour e Mondiale, non vi siete mai più parlati, vero?
«Per fortuna sua ci tennero separati. Non l’ho più visto e non lo voglio più vedere. So che ha avuto problemi con il fisco: se li merita. Che io sappia non ha mai diviso i premi con i gregari».
Lei aveva un carattere fumantino. Si racconta di uno scontro leggendario con Davide Boifava.
«A fine stagione, nel 1984. La squadra si era comportata male con me. Tagliai la bici in tanti piccoli pezzi, ruote comprese: un lavoro di precisione. La consegnai a Boifava in un sacchetto per ringraziarlo del trattamento ricevuto».
Lui?
«Balbettò qualcosa».
Vincenzo Torriani, storico patron della corsa rosa, sfuggì alla sua ira durante la tappa del Gavia del Giro 1988.
«Il giorno in cui tutti rischiammo di morire assiderati. Mi salvai abbracciando il radiatore bollente della moto di un poliziotto che era scivolata a terra. Torriani dall’auto urlava: “Avanti che a Bormio c’è il sole!”. Si era chiuso dentro e avevo le mani congelate, altrimenti l’avrei tirato fuori di peso».
Nel 1990 lei mollò tutto.
«Di punto in bianco. Ero saturo. Non ho più voluto rivedere nessuno e, a parte un paio di feste celebrative, è da quarant’anni che sto fuori dal ciclismo».
Le maglie rosa, i trofei?
«Regalato tutto. Tranne la Coppa del Giro, quella che vede lì sulla mensola del salotto. (La casa di Visentini è una grande, meravigliosa villa con due piscine a strapiombo sul Garda, ndr).
Suo figlio Matteo, il primogenito, le chiese di fare il corridore.
«Mi opposi con tutte le mie forze. Gli dissi: fai il pilota di auto o di moto, ma il ciclista no. Ero rimasto scottato dalla mia esperienza. L’ho costretto a obbedire, lo ammetto. Ma ha scelto la strada giusta: si è laureato al Politecnico di Milano e produce le bici più belle e care del mondo, le Passoni».
Lei invece?
«Un sabato d’autunno del 1990 restituii le bici alla squadra, il lunedì ero già al lavoro».
Un passaggio brutale.
«Naturale: sapevo che sarebbe stato il mio dovere, ero preparato anche se non avevo gestito un solo funerale in vita mia».
Di cosa si occupa esattamente?
«Di rendere più accettabile la morte di una persona cara. Perché morire è inevitabile e spesso è anche accettabile. Altre volte non lo è per niente: ragazzi, incidenti stradali, tragedie sul lavoro. Bisogna occuparsi dei corpi, di quelli che voi giornalisti descrivete come “poveri resti”. E di chi è sopravvissuto. Della parte più delicata da quasi quarant’anni mi occupo io».
Come si rende accettabile la morte?
«Con tatto e delicatezza. Quando vedo o leggo certe pubblicità di agenzie funebri che fanno ironia sul nostro lavoro e sulla morte mi indigno: serve rispetto. Vent’anni fa ho costruito una delle prime case funerarie del bresciano perché i familiari potessero salutare i loro cari in un luogo diverso, meno disumano di un obitorio».
È mai esistito il Visentini fighetto, quello che dopo il Tour de France faceva sci nautico sul Garda mentre sui giornali spopolavano le foto del Moser contadino che zappava la vigna a Palù?
«Io non l’ho mai conosciuto».