la Repubblica, 4 aprile 2025
Intervista a Bryan Ferry
Bryan Ferry è un uomo molto riservato.
Trascorre gran parte del tempo allo Studio One che, pur trovandosi a due passi da Kensington High Road, è introvabile senza precise indicazioni. Al piano terra ci sono le sale di registrazione e una serie di memorabilia che farebbero la felicità di qualsiasi fan dei Roxy Music. Sopra le scale c’è il suo studio, un enorme appartamento pieno di libri, disegni e molto altro – anche un paio di scarpe di scena bicolore anni 40. Ci riceve con una cortesia non formale e dall’elegante divano dello studio racconta la sua nuova creazione, che arriva a pochi mesi di distanza dal box antologico Retrospective: Selected recordings 1973 – 2023.
Da pochi giorni ha pubblicato
Loose talk, un disco di spoken word in cui le sue musiche inedite fanno da base alle poesie lette da Amelia Barratt. Racconta presente e passato con pacatezza e grandi sorrisi. Abbassa lo sguardo e si fa serio, strano a dirsi, solo quando si tocca il tema della sua fama di grande rubacuori.
Come è nato questo nuovo progetto?
«Avevo ascoltato alcune letture di Amelia qualche anno fa, nell’East End. Poi era venuta qui in studio per registrare alcuni testi, più o meno tre anni fa. Mi è piaciuta da subito la sua scrittura, il modo in cui interpreta la lettura. Abbiamo provato con un brano intitolato Star,che ho inserito nel boxantologico e abbiamo continuato.
Ho assaporato per la prima volta la libertà di comporre musica senza dovermi preoccupare della struttura della canzone».
È la prima volta che ascoltiamo un disco di Bryan Ferry senza la sua voce. Si prepara a scrivere colonne sonore?
«No, ma mi è sempre piaciuto lavorare su brani strumentali.
Stavolta non volevo concentrarmi sulla mia voce. Trovo quei testi molto stimolanti, è un’esperienza diversa che mi ha permesso anche di recuperare esperimenti e intuizioni dei vecchi dischi dei Roxy Music. È un piccolo progetto, non sono pezzi che ascolti in radio, ma stiamo già lavorando al secondo capitolo».
Tra i riferimenti delle nuove musiche ci sono album come “Avalon” e “For your pleasure”: nella copertina di quest’ultimo era ritratta una giovane Amanda Lear, che ha raccontato di essersispaventata sul set perché nessuno l’aveva avvisata della presenza di una pantera. Che ricordo ha di lei?
«Amanda! (ride)Lei è meravigliosa, molto femminile, ha un umorismo contagioso, è intelligentissima. Allestimmo quel set con il fotografo Anthony Price, con lui ci frequentiamo ancora, mi ha tagliato i capelli ieri. Avevo conosciuto Amanda a qualche sfilata di moda, abbiamo pensato subito a lei. Fu molto divertente, usammo una Cadillac nera e Amanda aveva un look un po’ sadomaso, aspettammo un paio di giorni per vedere le foto sviluppate. Amanda conosceva tantissime persone, una sera a Parigi ci portò a cena con Salvador Dalì».
Come andò l’incontro?
«Non parlò quasi mai. Andammo in un ristorante sugli Champs-Élysées. Si presentò con una Cadillac nera. Stava lì con il suo bastone e i suoi baffi, era un gran personaggio ma non disse quasi niente. C’erano parecchie modelle con noi».
Lei ha detto di non sentirsi affatto un seduttore. Però ha avuto flirt con tutte le modelle delle copertine dei suoi dischi.
Abbassa lo sguardo e parla a bassa voce. «Amo la bellezza in tutte le sue forme, ma non mi sento un seduttore. Per me le donne sono un mistero. Ma è bello avere dei misteri».
Dopo qualche contrasto ai tempi dei Roxy Music, con Brian Eno siete ormai ottimi amici, avete anche collaborato. Lui, parlando della musica dei Roxy, la definì “una lussuosa decadenza”. È d’accordo?
«Per i primi anni 70 ha ragione. Ma le canzoni successive sono più intime, più sentimentali. Certo, quegli anni erano un po’ decadenti, ma anche più colorati rispetto a oggi».
Ma è vero che parla troppo?
«Rispetto a me sicuramente sì. Ora abitiamo vicino, a volte ci incontriamo, ridiamo sempre molto. Lavorare con lui è una sfida».
Perché i Roxy Music si sciolsero all’apice del loro successo?
«Avevamo fatto tutto quello che potevamo fare. Ognuno di noi era preso da progetti personali.
Avevamo tutti voglia di sperimentare nuove collaborazioni».
Ha qualche rimpianto?
«A metà anni 80 mi offrirono Don’t you (forget about me). Ma ero troppo preso da Slave to love e rifiutai. I Simple Minds ne fecero una splendida versione, ma io oggi sarei più ricco».