La Stampa, 4 aprile 2025
Intervista ad Andrea Lo Cicero
Il Barone si alza presto, va a letto presto e di solito pulisce la fattoria. La sua. Nel Viterbese. Oddio, fattoria, meglio definirla tenuta. Anche perché se ti appiccicano addosso un soprannome del genere un motivo deve pur esserci. Eccolo. La famiglia Lo Cicero, quando il campione di rugby Andrea non era neppure una vaga idea di concepimento, ha origini, e che origini, nobiliari. Siamo in una Sicilia d’altri tempi. Quella complicata, eufemismo, quella dei banditi, quella dei mafiosi ma in tutte le sue storiche contraddizioni anche quella dell’orgoglio, pure quella dei contadini che si fanno un mazzo così, addirittura quella che parla poco ma quando parla… persino quella delle guardie che arrestano i ladri. E qui la guardia principale si chiamava appunto Cirino Valenti. Era la prima metà del Novecento. Era il nonno, da parte di mamma. Era l’impresa investigativa del momento che anche oggi non è ancora finito. Era l’arresto di Salvatore “Turiddu” Giuliano. Urca. Il bandito Giuliano. Il brigante Giuliano. Il terrorista Giuliano. Il mafioso Giuliano. Quello della banda Giuliano. Uno degli assassini di undici persone nella tragedia incancellabile e indelebile e invereconda che è e continuerà a essere la strage di Portella della Ginestra. Con una storia di onore (diversi parenti dentro le istituzioni) e nobiltà dietro alle immense spalle, negli anni a venire Lo Cicero diventa il giocatore italiano più famoso e vincente nella storia del rugby. Ruolo: pilone. Perché ci vuole un fisico bestiale per fare da barriera a gente grande e grossa così che corre come il vento. E si tratta di stare in prima linea. (Ri)appunto. Ma la storia non si ferma davanti a un pilone, appunto. La storia entra nelle fattorie e ti dà ragione. La storia è lui, nessuno si senta offeso. Almeno quando c’è una palla ovale a girarti intorno. Ma il Barone non si ferma qui. E fa il cuoco, il giardiniere, il conduttore e il concorrente televisivo, il personaggio nei reality, il benefattore, l’agricoltore.
Ma sempre “Il Barone” resta.
«Già, la mia famiglia non ha un’origine qualsiasi. Il soprannome lo inventò, una vita fa, un suo collega. E da allora sono rimasto quello».
Ritorniamo alla famiglia.
«Nobile, di Catania, legata ai Cannizzaro. Le origini sono di Vizzini, la cavalleria rusticana, i Borboni. In realtà siamo Lo Cicero Vania ma tutti omettono perché in Italia si tende sempre a fare le cose facili».
E ha cominciato a giocare a rugby anziché, chessò, fare l’avvocato.
«Beh, ho fatto tanti sport. Anzi sono nato e cresciuto con lo sport, ma quello che ho scelto è stato l’unico che mi ha realmente regalato piacere e mi ha fatto sentire completo».
Ruolo pilone. Un fracasso di legnate. Litigioso?
«Quando ho smesso di giocare mi arrabbiavo molto per la mancanza di regole, del senso civico. Ora ho lavorato su di me, ogni anno mi dedico a uno dei miei aspetti che voglio e devo migliorare. Tipo la saggezza e la tolleranza. Perché non puoi educare il mondo e se devo andare a ricoverarmi per la marea di maleducati che ci sono… anche no. Colpirne uno per educarne cento è impossibile. C’è questa sorta di anarchia dove tutti sono più bravi e migliori dell’altro. Sarà. Ma a me frega niente. Questo nella vita. In campo litigioso zero. Il rugby non lo permette».Ha girato il mondo per lavoro e quindi per vivere. E adesso abita a Nepi, vicino a Viterbo. E le radici siciliane?
«Intatte. Più passa il tempo e più si amplifica il legame con la Sicilia anche perché odio quegli stereotipi sciocchi e ignoranti tipo la valigia di cartone. C’è una Sicilia che sta a noi veicolare. Una regione che non ti aspetti. Con imprenditori seri e capaci. La mafia c’è dove è lo Stato a non esserci. Ed è ovunque e… comunque a Catania stanno facendo molti arresti, difficile si ricompattino».
Lei è stato il più forte e famoso rugbista d’Italia. La consacrazione è arrivata con i Barbarians. Chi sono?
«Un raduno di giocatori che rappresenta la vita di tutti i giorni. Una selezione internazionale dei migliori non soltanto per capacità sportive. Il fatto di essere andato a giocare all’estero ha aiutato. Essere stato definito “leggenda” è davvero un piacere immenso, vuol dire che ho fatto qualcosa di buono. E poi è uno sport inclusivo, il nostro».
E arriviamo al mitico “terzo tempo” post palla ovale. Cucina e giardinaggio.
«Sì, sono passioni che ho sempre portato avanti. Da atleta, per necessità, dovevo mangiare tanto quindi dovevo cucinare bene e sano. Dopo il rugby ho avuto una grande depressione. Non sapevo cosa fare in un Paese, il nostro, che offre poco. E allora mi sono detto: vediamo se riesci a diventare un cuoco. Ho studiato assai perché per riuscirci devi entrare a regime. Proprio come una cucina. Il giardinaggio, invece, nasce dai nonni. Avevano degli agrumeti e da piccolo stavo lì, sempre. Era bellissimo, era libertà, era sacrificio anche per una famiglia nobile. Da parte di papà avevo un nonno ufficiale dell’Aeronautica che ha fatto anche la guerra d’Etiopia, da parte di mamma un nonno dirigente della Polizia di Stato. Per me è stato super formativo, mi hanno insegnato il valore della divisa, il rispetto per gli uomini in divisa».
Poi tanta televisione. Conduttore ma anche concorrente.
«Ho fatto il concorrente e l’ospite in vari programmi, ma Master Chef Celebrity è stato il top. Ho avuto la conferma di che cosa voglia dire uno chef, che non è solo saper cucinare. Professionisti come Igino Massari, ma anche parecchi altri si fanno un mazzo tanto».
A “La prova del cuoco”, in Rai, di fianco alla Isoardi, allora compagna di Salvini, è stato cacciato. La solita mano potente della politica?
«Mah, guarda… Mi ero trovato a coronare un sogno. Quello di lavorare per il servizio pubblico in una trasmissione che mi piaceva. Poi un certo Anzaldi… no comment, fece un’interrogazione parlamentare allucinante. “Lo Cicero non può stare lì perché è omofobo e razzista”. Ma mi faccia il piacere! Sono ambasciatore Unicef sul campo e da sempre volontario per la Croce Rossa. Ero sulle ambulanze quando c’è stata l’alluvione in Emilia-Romagna. Mai avuto un’etichetta politica. L’accusa di essere omofobo poi nasceva da Vladimir Luxuria. Sosteneva che nel mio libro c’era scritto che, nel rugby le protezioni erano roba da frocetti. Ma era un modo di dire, nessun intento di essere offensivo. Mi fanno senso “i marchi”. Vanno visti i comportamenti. Tocca stare attenti a marchiare le persone soprattutto oggi che nei social è un attimo scatenare un onda di insulti, offese e attacchi. Le persone devono comportarsi da persone. Se sei omofobo si vedrà, se sei delinquente apparirà. Quella storia lì, banale e superficiale, mi ha segnato molto e mi hanno creato problemi, ma sono andato avanti a testa alta. Mi hanno messo fuori non so perché, non so se sia stata una roba politica».
Arriva anche “L’isola dei famosi”. Che non è roba da nobili e nemmeno da Lo Cicero.
«Era il momento del Covid. Non riuscivo a lavorare, era un’opportunità per tornare in video, per fare i conti con la mia testa. E mi è servita, anzi mi ha aiutato e liberato. È stata anche un’occasione per ripulire la mia agenda, capire quali erano i sostenitori e più che altro gli amici veri. Insomma ho fatto un esperimento sociale, non un programma tivù».
Riavvolgiamo e ricominciamo dalla cucina.
«Facile. Io mi addormento e mi sveglio pensando alla cucina. Per degli eventi che riguardano il mio lavoro e per i miei figli e mia moglie. Ogni giorno preparo un piatto diverso. Voglio educare i ragazzi a mangiare tutto, ma soltanto cose fresche. L’alimentazione è la parte più longeva della vita e tiene a distanza farmaci e medici. Parlavamo di un’altra mia passione, il giardinaggio. Ecco. Le erbe aromatiche che coltivo sono una farmacia naturale. La gente non ne conosce i benefici. Dicono: prendo un farmaco e mi sento meglio. Ma che discorso è se si può evitare? Bisogna mangiare cibi fermentati e probiotici vivi. Personalmente sono cattolico, ma i monaci buddisti si alimentavano e si alimentano così».
E adesso ha una tenuta a Nepi. L’ennesima avventura.
«Sì, è un progetto cominciato dopo il rugby. In principio avevamo degli asini che sono perfetti per aiutare bambini con problematiche. Poi riecco il Covid ed ecco un soggetto che ha sparato a una nostra asina. È ancora in corso un processo penale e spero finisca presto perché non abbiamo dato giustizia a Zaira. Poteva ammazzarci tutti. Eravamo in casa. Il tizio ha mirato con una carabina da sessanta metri da noi e ventiquattro da Zaira. Ti dico solo che abbiamo sentito lo spostamento aria. In quel momento ho fermato tutto. Non me la sentivo più. E non se la sentivano soprattutto gli altri asinelli. Appena arriverà la sentenza ricominceremo».
E il gigante pilone ha fatto niente?
«No, sarei stato come lui. Credo nella giustizia, io».
Poi si è offerto di custodire le capre di un’imprenditrice assassinata.
«Avevamo anche organizzato il trasporto che dal punto di vista economico incideva, eccome se incideva. Si erano offerti in tanti. Camion della Polizia di Stato e non solo. La vittima era una ragazza che aveva subìto una violenza: amava gli animali, portava avanti un progetto tipo il mio».
L’intervista è finita. Il Barone deve cucinare. Mentre lui aspetta lo sentenza sull’assassinio di Zaira, sono moglie e figli ad aspettare lui. E soprattutto sono tante caprette tibetane. Che fanno benissimo a tanti bambini con problemi vari e gli vanno incontro. E gli fanno ciao.