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 2025  aprile 04 Venerdì calendario

Noi, padri ideatori di Adolescence

Adolescence è la serie del momento. E, visti i temi trattati, probabilmente sarà una delle più importanti dell’anno. Alla notizia delle ennesime ragazze uccise in Italia da coetanei perché li avevano rifiutati, è impossibile non farsi domande su cosa si possa fare per educare i giovani uomini al rispetto delle donne. È proprio ciò che hanno fatto gli autori della miniserie Netflix: Stephen Graham, attore nella parte struggente del padre del ragazzo e anche co-sceneggiatore e produttore, Philip Barantini, regista, e Jack Thorne, sceneggiatore. Hanno tutti dei figli e si sono detti: «Sono preoccupato per il loro futuro. Cosa posso fare?». Scopriamo come hanno dato forma a questa urgenza da padri in apprensione in Adolescence.
Da dove siete partiti?
S.G.: «Uno dei miei obiettivi principali è stato domandarmi cosa stia accadendo ai giovani uomini oggi. Quali sono le pressioni che subiscono dai loro coetanei, da internet e dai social media? Il peso che viene da tutte queste cose è difficile da affrontare per i ragazzi di questo paese come in tutto il mondo».
A chi vi siete ispirati?
S.G.: «Ho basato Eddie, il padre di Jamie, il ragazzo che uccide la sua coetanea, su diversi uomini della classe operaia che ho conosciuto. Mio zio, che si chiama proprio Eddie, e gli amici di mio padre. Volevo che fosse una persona qualunque, che ama la sua famiglia e sgobba parecchio per mantenerla, spesso senza rendersi conto che così la danneggia. Esce alle sette di mattina e torna alle sei di sera, nel weekend va al pub e al parco. È un brav’uomo, ma non ha gli strumenti per esprimere i suoi sentimenti, perché non gliel’hanno mai insegnato. Il personaggio della psicologa invece è un tributo a mia madre: ha molti elementi in comune con lei. Era un’assistente sociale con lo stesso livello di cura e passione per il suo lavoro».
Ha pensato a suo padre?
S.G.: «No, perché con lui ho potuto parlare di tutto. Eravamo molto uniti. Nella nostra storia invece padre e figlio sono disconnessi e il padre non sa come colmare questo gap».
Eddie in qualche modo non è stato un buon esempio per Jamie?
S.G.: «Eddie, un idraulico, si dice di aver provato di tutto con suo figlio: lo ha portato a vedere le partite di calcio, la boxe. Ma non è scattata la scintilla. Il ragazzo non ha interesse per l’impresa di famiglia. Così, quando gli chiede un computer, glielo compra. Non ha però idea di che cosa ci faccia mentre è da solo nella sua stanza. C’è qualche genitore che lo sappia davvero? Quando parla con la psicologa esce fuori che anche suo padre aveva scatti d’ira, come quando ha distrutto il capanno. In qualche modo Eddie ne è stato contagiato e, inconsciamente, deve averla passata a Jamie».
I quattro episodi sono girati in piano sequenza: come ci siete riusciti?
P.B.: «In sostanza abbiamo premuto rec e non ci siamo fermati fino alla conclusione dell’episodio. Ma è stato molto più complicato di quanto sembri. Ci sono voluti mesi di preparazione e settimane di prove. È stato un lavoro collettivo studiato al millimetro: sceneggiatori, scenografi e operatori hanno dovuto calcolare precisamente dove si sarebbe posizionata la camera e da quale angolo avrebbe ripreso. Il direttore della fotografia, Matt Lewis, ha fatto un piano dettagliato di ogni movimento. Il production designer, Adam Tomlinson, ha costruito dei modellini, grazie a cui abbiamo capito come muovere gli attori nello spazio. Quando finalmente siamo arrivati sul set, sapevamo che niente era stato lasciato al caso. È stata un’esperienza simile al teatro, in cui però non si dice mai: stop!».

Cosa avete capito dei ragazzi di oggi grazie ad Adolescence?
P.B.: «Ho una figlia di 7 anni e alcune delle cose che ho scoperto lavorando alla serie mi hanno lasciato terrorizzato per il suo futuro. È stato come aprire una lattina piena di vermi. Quando ero piccolo io, se avevi un problema con qualcuno te la vedevi con lui al parco. Poi tornavi a casa e te ne dimenticavi. Oggi, con i social media, è impossibile».
J.T.: «Anche io ho un figlio, ha nove anni. Per noi il tema centrale è la rabbia maschile e l’alienazione, in particolare quella dei figli della classe operaia. E come i social media la alimentano: li stanno facendo sentire isolati, danno loro ragioni per odiare e insegnano che manipolare le ragazze è il modo per conquistarle. Siamo andati su questi siti di “redpillati”, non sapevamo cosa fossero: non ci vuole molto per capire che sono molto problematici».
Come avete trovato Owen Cooper, l’attore tredicenne? È un vero talento.
J.T.: «Abbiamo fatto provini a centinaia di bambini. Owen è davvero bravissimo, ma è stato determinante anche il suo aspetto. La sua fisicità e l’aria di innocenza hanno contribuito a sceglierlo. La sua faccia fa pensare: com’è possibile che questo bambino possa essere un assassino?».
S.G.: «Non volevamo mostrare una famiglia problematica: gli spettatori dovevano pensare, guardandola, che potrebbe capitare a loro».