La Stampa, 4 aprile 2025
Così l’appiattimento del linguaggio peggiora la qualità della democrazia
Daniela Padoan: Il progressivo incrudimento e appiattimento del linguaggio è una sorta di indicatore, di segnale d’allarme, dello svuotamento autoritario delle democrazie. Descrivendo la situazione vissuta dagli italiani alla vigilia della presa del potere fascista, Piero Calamandrei aveva parlato di una «stomachevole uniformità di tutti i giornali», di una «ributtante retorica, tracotante e menzognera, penetrata come un contagio». Quali analoghi segni possiamo distinguere oggi, nell’era dell’intelligenza artificiale?
Michele Cortelazzo: Ho collaborato recentemente a una ricerca condotta principalmente da colleghi di statistica basata sul confronto tra un corpus di 500 testi prodotti dall’intelligenza artificiale e 500 da umani, per rintracciare le differenze tra i due tipi di scrittura. La differenza maggiore consiste nell’iper-standardizzazione della scrittura dell’intelligenza artificiale. Non è una questione da poco, perché ormai siamo utenti inconsapevoli di un enorme numero di testi scritti dell’IA in forma coperta, non dichiarata. Ma se l’intelligenza artificiale si nutre di ciò che trova nel web, e dunque della propria scrittura – che è più ristretta di quella umana, perché gioca sulla frequenza, sulla probabilità – e diventa un cannibale, il rischio di appiattimento è sempre più forte. Anche perché l’intelligenza artificiale ha dalla sua il tempo: ci produce un testo in pochi secondi. Ma sarà un testo piatto, linguisticamente monotono.
DP: Ma questo non implica una soppressione, o perlomeno un assottigliamento, delle ambiguità, delle zone di confine, delle tante sfumature di significato che rendono ricca e imprendibile, dunque libera, la comunicazione umana? In 1984, Orwell immagina che una Neolingua imposta come ufficiale nello stato totalitario di Oceania introduca parole e costrutti grammaticali nuovi, usati inizialmente dalle istituzioni per sopprimere poco per volta la lingua della tradizione, l’Archelingua, così da rendere conforme il pensiero e farlo svolgere in un eterno presente. Nel romanzo, l’imposizione di un numero ridotto di parole da usare solo in contesti ammessi – ad esempio la parola “libero” in frasi come «questo cane è libero da pulci» – è il presupposto di una forma distopica di controllo che cancella sia la memoria sia il futuro.
MC: Orwell ha sbagliato solo di qualche decennio. Mentre noi esseri umani possiamo creare cose nuove, l’intelligenza artificiale, per sua caratteristica, non fa che riscrivere quello che è già scritto. Tutto ciò che è innovazione esula dal Large Language Model. L’intelligenza artificiale si è sviluppata su una grande quantità di dati testuali per generare testi analoghi a quelli umani; si basa, quindi, necessariamente sul passato, cancella il futuro. Il tratto maggiore che distingue la scrittura generativa dalla scrittura umana è la perplexity, la sorpresa. La scrittura generativa non dà sorprese, mentre il genere umano è progredito proprio a partire dalle sorprese e a volte dagli errori. Non parliamo più latino perché ha vinto chi faceva errori. L’evoluzione delle lingue parte da fraintendimenti che poi diventano norma, e questa è spesso una ricchezza, perché senza errori ci si fossilizza in quello che già c’è.
DP: Le effrazioni di significato sono quelle che originano il testo poetico e la disponibilità a considerare l’altro nella sua inviolabile umanità. «Per uno che ha letto molto Dickens sparare su un proprio simile in nome di una qualche idea è impresa un tantino più problematica che per uno che Dickens non l’ha letto mai» disse il poeta russo Iosif Brodskij nel suo Discorso del Nobel. Cosa implica la perdita del linguaggio della diplomazia, del sapere antico della mediazione, del fare compromessi, che riguarda anche le guerre in corso, a favore di un “muro contro muro” dove vengono dette enormità, salvo poi vedere dove si arriva, e fermarsi – almeno fino a quando sarà possibile – prima di confliggere sul serio?
MC: Qui entra in gioco la perdita della memoria. Si dicono le cose più inverosimili e poi si fa marcia indietro, secondo una tendenza largamente sviluppata dalla comunicazione prima audiovisiva e poi attraverso i social. Prima le sparo grosse, ottengo consenso, e poi posso tornare sui miei passi come nulla fosse. Anche a proposito dell’evoluzione semantica delle parole, anche nelle polemiche dure con gli avversari, colpisce la possibilità di essere incoerenti, o non conseguenti, senza che questo appaia un elemento negativo. Nessuno, ormai, si ricorda di quello che ha letto o sentito sei mesi fa, un anno fa. Il paradosso è che abbiamo, grazie al web, una possibilità di recuperare documentazione dal passato che mai abbiamo avuto nella storia. Ma la conseguenza è che abbiamo esternalizzato la nostra memoria, l’abbiamo delegata alla macchina e siamo finiti nel Lete. Ogni giorno è un nuovo giorno, dove vale solo quello che si dice oggi.
DP: Sembra la dimensione del Grande fratello che, adattata a un archivio esterno, per quanto immenso, ostacola la stratificazione di un pensiero autonomo, l’elaborazione di concetti che solo se interiorizzati e resi individuali sono capaci di trasformarsi in una propria struttura di pensiero e di memoria.
MC: Esatto, e questo vale non solo per i riceventi. Vale anche per gli emittenti. Sono convinto che a volte i politici siano in buona fede: smentiscono se stessi a distanza di pochi mesi o pochi anni, proprio perché non ricordano più quello che hanno detto. C’è un altro aspetto innovativo nella comunicazione politica: il rilievo del “controcanto mimico” che abbiamo visto adottare in misura corposa da Matteo Salvini davanti alla requisitoria con cui Giuseppe Conte sancì la fine del suo primo governo. Soggetto a un attacco verbale notevole, l’allora vicepresidente del Consiglio rispose puntualmente con gesti e smorfie. Una modalità legata alle forme visuali di diffusione del discorso politico, che hanno sostituito quelle realizzate per mezzo della stampa o della radio. Nessuno, nel Parlamento, avrebbe perso tempo a fare le “facce” mentre parlava l’avversario. Ci siamo trasformati in una società molto più visiva che verbale, dove la teatralità che assicura il primo piano nei talkshow fa sì che vinca l’insofferenza dell’accusato rispetto alle accuse dell’accusatore. Non un bel segno, per la dialettica necessaria alla democrazia. —