Il Messaggero, 4 aprile 2025
Delocalizzare in America: il Made in Italy al bivio
I dazi voluti da Trump pone le aziende italiane di fronte a un bivio: trasferire parte delle produzioni negli Usa oppure cercare mercati alternativi. Sul primo fronte c’è Lavazza. «A oggi – ha spiegato il ceo Antonio Baravalle – il 50 per cento della nostra produzione americana è fatta in loco, ci manca un altro 50. Il progetto per completarla è approvato». Di diversa opinione lo stilista Brunello Cucinelli: «Non sono preoccupato per i dazi. Se perdiamo tempo a parlare di cosa non ci piace, lo sottraiamo alla creatività».
In America operano oltre 2mila imprese italiane. E come Lavazza, accelerano su nuovi stabilimenti o per aumentare le posizioni realtà come Pirelli, Riello, Prysmian, Illy, Vismara, Roncadin o Arvedi. Fabio De Felice, con la sua Protom, azienda digitale nata a Napoli, ha puntato sulla South Carolina per sviluppare soluzioni di IA: «Abbiamo scelto di reagire con una visione strategica rafforzando la nostra presenza sul mercato statunitense, incrementando investimenti già programmati».
Il mosaico creato dai dazi colpisce aziende radicate Oltreoceano. Stellantis, che controlla Chrysler, la piccola delle Big Three di Detroit (Chrysler), ha sospeso la produzione in Canada e Messico, dove assembla auto e componenti per gli Usa. Per tutta risposta Fitch ha abbassato il rating da BBB+ a BBB per «il peggioramento delle condizioni di mercato in Nord America».
ORIZZONTI
Nel piano stilato dal ministero degli Esteri con gli attori – Ice, Cdp, Sace o Simest – che accompagnano le imprese fuori dai confini, si guarda ad allargare il perimetro dell’export verso emergenti come Turchia, Cina, Emirati Arabi Uniti, Messico, Arabia Saudita, Brasile, India, Sud Africa, Algeria o regioni come Asean e Balcani. Per Pier Paolo Ghetti, Global Trade Advisory Service Line Leader di Deloitte, spiega che «il nuovo contesto impone una revisione dei flussi in una prospettiva di efficienza tariffaria. Strategie quali la rilocalizzazione produttiva, l’approvvigionamento strategico e l’utilizzo efficiente di particolari schemi doganali consentono di ottimizzare le tariffe doganali contenendone l’impatto». E aggiunge: «Aree come Sud America, Apac, Medio Oriente e Africa sono ad alta domanda e interesse crescente verso il made in Italy, favorendo la stabilità nel medio-lungo termine anche grazie ad accordi che la Ue potrebbe chiudere con queste controparti alla luce delle restrizioni imposte».
Nella direzione di «trovare nuovi mercati di sbocco», Alessandra Guffanti, direttrice commerciale di Guffanti Concept e presidente della sezione bambino di Confindustria Moda, per esempio non esclude di aprire «la distribuzione nei Balcani o in determinate aree mediorientali». «Per l’agroalimentare è impossibile pensare di sostituire le quote sugli Usa verso altri Paesi – segnala Ettore Prandini, presidente di Coldiretti a nome di un settore con 7,8 miliardi di export verso gli Usa – Abbiamo lavorato oltre un decennio per creare una cultura del cibo italiano. Pensare di fare lo stesso in poco tempo in Cina, dove i formaggi non sono così centrali nell’alimentazione, è impossibile». Da qui il timore che i dazi finiscano «per restringere il mercato dei nostri Docg in America, impedendoci di allargarci verso un fascia media alto-spendente, lasciandoci solo quella altospendente».
Aggiunge Alfredo Mariotti, direttore generale di Ucimu-Confindustria: «Sulle macchine utensili siamo i migliori, le facciamo “su misura” rispetto alle esigenze delle aziende. Certo, stiamo andando a venderle in India, Vietnam o Sud America, ma non credo che gli americani, se vorranno reindustralizzarsi, faranno a meno dei nostri macchinari. Delocalizzare negli Usa? Le nostre imprese sono troppo piccole».