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 2025  aprile 04 Venerdì calendario

«Io, regista d’opera a servizio dell’uomo»

Il giorno dopo la prima di Matrimonio al convento di Sergej Prokof’ev da Vienna è volato a Milano. E subito in sala prove per preparare la prima mondiale de Il nome della rosa di Francesco Filidei. Si va in scena al Teatro alla Scala il 27 aprile e tutte le repliche sono già esaurite. Intanto però lo sguardo è proiettato in avanti. Perché è sua la “firma” artistica del cartellone 2025 dell’estate dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla. Un festival “Tra sacro e umano”. «Questo il titolo che gli ho voluto dare, guardando al Giubileo che Roma sta vivendo» racconta Damiano Michieletto. Che ormai, sulla soglia dei cinquant’anni, è un classico della regia lirica. «Ma il mio desiderio – dice il regista di Scorzè, cittadina dove si incontrano le province di Venezia, Padova e Treviso – è sempre quello di sperimentare, di continuare a percorrere strade inesplorate». Un nuovissimo Matrimonio al convento per il Theater an der Wien, la prima mondiale dell’opera ispirata al romanzo di Umberto Eco per il Piermarini. E un’agenda piena di riprese di spettacoli che hanno fatto la storia: Animal farm che Alksander Raskatov ha scritto ispirandosi al romanzo di George Orwell in scena in questi giorni a Helsinki, un’Aida verdiana a giugno a Firenze, una Káta Kabanová di Janácek in agosto a Glyndebourne, un Giulio Cesare di Händel a Bari… «Un lungo elenco, tante cose. Ma l’importante – sorride Michieletto – è mantenere un buon livello di qualità».
E dove trova, Damiano Michieletto, l’energia e soprattutto le idee per tutti questi nuovi spettacoli?
«Quando finisco una produzione non mi sento scarico, anzi. Quello che faccio mi piace e non mi costa fatica. Detto questo, sono convinto che quello del regista sia un lavoro, bellissimo naturalmente, ma pur sempre un lavoro. E io non credo tanto nell’ispirazione, ma in un mestiere dove le idee vengono quando ti siedi a un tavolo e ti metti ad analizzare una partitura. Ogni idea per i miei spettacoli nasce dal testo che ho davanti».
Qualche giorno fa la prima di Matrimonio al convento di Prokof’ev al Theater an der Wien di Vienna. Un’opera comica… «E a me piacciono molto le opere dove si ride. E dove si sorride di noi. Mi piace lavorare alla caratterizzazione di personaggi assurdi, che vanno in crisi, perdono pezzi per strada. Come succede a tutti noi nella vita. C’è chi ne fa un dramma e chi invece riesce a riderci su con autoironia. Che è poi quella che ci salva. Quando lavoro su testi paradossali come quello di Profof’ev, che racconta un matrimonio continuamente rimandato tra mille equivoci, mi piace scoprire e raccontare lati umani dei personaggi che sono gli stessi di quelli che noto nella gente che incontro per la strada».
Quale l’idea da cui è partito “leggendo” il testo di Prokjof’ev?
«Il libretto lo ha scritto lo stesso compositore. E si sente, è un po’ farraginoso. Poteva forse essere più asciutto e sarebbe stato perfetto. Comunque ho voluto esaltare l’aspetto surreale del Matrimonio al convento mettendomi in ascolto della musica scoppiettante di Prokof’ev. L’opera racconta il viaggio del protagonista dentro un mondo fantastico. Ho voluto allora raccontarlo cambiando le dimensioni dello spazio, giocando con la trasformazione dei costumi e delle identità e creando delle visioni che portino la narrazione su un piano immaginifico».
Da un convento a un monastero, quello dove Umberto Eco ha ambientato il suo romanzo più famoso, Il nome della rosa che adesso Francesco Filidei trasforma in un’opera lirica. Tutti abbiamo in mente il film del 1986 con Sean Connery…
«Dimenticatelo. La cifra estetica del film non c’entra nulla con lo spettacolo che ho pensato e che stiamo provando. E poi il cinema ha un suo linguaggio che non è quello del teatro. Come chi lavorò al film ha creato una sceneggiatura partendo dal romanzo, così abbiamo fatto anche noi che partendo da quello stesso romanzo abbiamo scritto un libretto tenendo conto di quelle che sono le caratteristiche dell’opera lirica».
Come racconta, allora, questo “giallo”?
«Mi sono lasciato ispirare dall’iconografia medievale, un Medioevo immaginifico che racconto attingendo ai bestiari dando corpo a creature tra il paradisiaco e il demoniaco. L’estetica sarà comunque contemporanea. Lo chiede la musica di Filidei. Da subito mi sono messo in ascolto della partitura per cercare di coglierne tutte le potenzialità narrative e visive».
C’è una responsabilità maggiore essendo una prima mondiale?
«C’è anche una libertà maggiore. L’estetica e il taglio interpretativo del mio spettacolo l’ho costruito in un confronto continuo con il compositore. In prova, con gli interpreti, stiamo scoprendo insieme tutte le potenzialità della musica. E penso che questo sia l’atteggiamento giusto per una nuova opera, arrivare in sala prove senza che nessuno abbia preconcetti o preconoscenze sul testo, come capita quando si affronta uno dei tanti capolavori del melodramma. Nessuno può dire di saperlo già».
Un monastero, un convento. Poi un’estate dove la spiritualità è il filo rosso che attraversa “Tra sacro e umano”, il cartellone che ha disegnato per Caracalla avendo carta bianca dall’Opera di Roma.
«Ho voluto subito ampliare la tradizionale proposta di Caracalla trovando un altro palcoscenico, quello della Basilica di Massenzio che spero possa essere usato in futuro non solo dal Teatro dell’Opera, ma da tutta la scena romana. Un luogo più raccolto dove ci sarà il barocco di Händel…».
Per la versione scenica de La resurrezione ha chiamato una regista italiana che non ha mai lavorato in Italia, Ilaria Lanzino, che spopola in Germania con allestimenti che stravolgono i significati delle opere che mette in scena. A Roma avrà tra le mani un testo sacro...
«Trovo che il talento di Ilaria Lanzino debba essere conosciuto in Italia così come quello agli antipodi della slovacca Sláva Daubnerová alla quale ho affidato Traviata per uno sguardo femminile sull’opera di Verdi. Il mozartiano Don Giovanni avrà la firma di Vasily Barkhatov mentre io metterò in scena West side
story di Bernstein».
Cos’è per lei la spiritualità?
«La capacità di rimanere presenti a se stessi, di rimanere umani, di ve-dere le cose con un respiro che vada oltre un perimetro limitato ai propri interessi e ai propri egoismi».
A novembre compirà cinquant’anni. Tempo di bilanci?
«Sono felice di fare le cose che mi piacciono. Ho due figli che crescono. E mi sento curioso e vivo e non voglio accontentarmi. Voglio continuare a lavorare su me stesso per essere attento e offrire sensibilità a chi incontro con i miei spettacoli».
Oggi è il regista che avrebbe voluto essere?
«Non ancora, perché ho ancora cose da realizzare, ho fatto tante cose, ma ne voglio fare ancora seguendo una strada che non sia ripercorrere un sentiero già battuto. Non voglio fare cose che ho già fatto, voglio raccogliere nuove sfide».
Ha mai pensato alla sfida della politica?
«Mio padre ha fatto il sindaco per dieci anni. Questo mi ha fatto respirare sin da subito la passione e la bellezza di mettersi a servizio dei cittadini. Se penso alla politica, penso a questo».