Avvenire, 4 aprile 2025
La tenacia di Jang che si è laureato battendo le ciglia
Un battito di ciglia. Cosa c’è di più delicato, evanescente, infinitesimale di un battito di ciglia? Eppure questo gesto istintivo, inavvertito, che compiamo in media circa 20mila volte al giorno senza rendercene conto, se “orientato”, ripetuto con costanza, pazienza e determinazione può garantire risultati stupefacenti. Ce ne sono voluti circa mezzo milione di battiti di ciglia a Jang Ik-sun per scrivere la sua tesi di laurea. Jang ha 38 anni ed è un attivista sudcoreano per i diritti dei disabili. È inchiodato a letto, imprigionato in un corpo ormai incapace di movimento a causa di una distrofia muscolare progressiva che gli è stata diagnosticata quando aveva cinque anni. Da allora, progressivamente, il suo corpo si è, un po’ alla volta, svuotato. Si è spento. Ma non così la sua intelligenza, rimasta vigile e prensile, né la sua voglia di apprendere, di conoscere, di studiare. Di esserci. Jang oggi dipende da un ventilatore per respirare. Comunica con il mondo, studia e lavora digitando attraverso un mouse con eye-tracking. In pratica, seleziona le lettere con i battiti di ciglia.
Come racconta il quotidiano sudcoreano The Korea Herald, Jang ha appena licenziato la sua tesi (An Autoethnography of a Bedridden Muscle Disability Activist Using a Ventilator), un “mattone” accademico di 70mila caratteri che «gli è valso un master in assistenza sociale presso l’Università di Gwangju», scritto grazie a un numero incommensurabile di battiti di ciglia. Si tratta di un poderoso lavoro sia «personale che analitico che esplora come la disabilità sia plasmata non solo dalle menomazioni fisiche ma anche dalle barriere sociali».
Ciò che rende la storia di Jang unica, scrive ancora il Korea Herald, «non è solo la sua perseveranza: è il modo in cui Jang si è fatto strada attraverso gli ostacoli della vita. Ogni volta che la sua condizione gli ha sottratto un’altra capacità fisica, la sua risposta è stata semplicemente: qual è la prossima possibile soluzione alternativa?». Una tenacia che l’attivista stesso ha provato a spiegare così: «Ho gradualmente imparato a digitare con gli occhi dal 2014, quando ho perso il controllo dei movimenti delle mani, quindi sono diventato piuttosto veloce. So che le persone considerano la mia storia fonte di ispirazione e ne sono contento. Ma onestamente non ci penso. Sono troppo impegnato a cercare il prossimo strumento che mi aiuterà ad andare avanti», ha raccontato.
Invece di concentrarsi su ciò che aveva perso e che la malattia gli aveva sottratto, Jang si è concentrato su ciò che poteva ancora fare. «Ha sperimentato con la tecnologia, il software e le configurazioni “fai da te”, trovando soluzioni alternative per le sfide quotidiane che devo affrontare. Quando c’è la volontà, c’è uno strumento», ha confidato con candore. La storia e il percorso di Jang sono carichi di significati e suggestioni. Si resta esterrefatti dinanzi alla sua forza di volontà, al desiderio di essere di aiuto agli altri. Di raccontarsi. Di evadere da una prigione – la più terribile, quella del proprio corpo – grazie alla tecnologia che, in questo caso, si è spogliata di ogni ombra o risonanza apocalittica per essere, davvero, uno strumento al servizio della vita. In un’epoca come la nostra votata alla distruzione, nella quale il male sembra essersi accampato al centro della scena fagocitando speranze e aspettative (ed esistenze), Jang ci testimonia che l’attaccamento alla vita può manifestarsi in modo sorprendente e inatteso. Che la delicatezza e la fragilità possono avere una forza inaspettata. Che il dolore non acceca, non spegne la speranza. Il bene è un battito di ciglia capace di scalare una montagna.