Avvenire, 4 aprile 2025
«Giustizia»: il grido anti-Erdogan di Istanbul che risuona ovunque
«Di questi tempi un post sbagliato sui social basta per essere arrestati, figurarsi scendere in piazza contro il diktatör Erdogan»: Gül, 24enne da poco laureata in sociologia, lo chiama così il presidente-padrone della Turchia, commentando la dura repressione dei suoi coetanei che hanno scelto di invadere le strade di Istanbul dopo il clamoroso arresto del popolarissimo sindaco Ekrem Imamoglu.
Questi ragazzi, che rappresentano l’anima dei cortei per la resistenza civile, sono ben consapevoli di ciò che rischiano esponendosi, ma sono convinti di essere di fronte a «un momento cruciale per la Turchia». Una consapevolezza che accomuna anche chi decide di restare nelle retrovie, ma osserva con partecipazione silenziosa il rapido precipitare degli eventi, tra tv censurate e arresti a raffica – di accademici, avvocati, giornalisti, ragazzini – in un giro di vite percepito come un segno lampante dell’erosione sempre più smaccata dello Stato di diritto. E così capita che la parola d’ordine delle manifestazioni – «Adalet!» (giustizia) – si alzi a sorpresa anche lontano dalle piazze, magari in un vagone della metropolitana: e allora qualcuno istintivamente si unisce al richiamo battendo a ritmo le mani in un gesto complice. Altri stanno in silenzio, forse per indifferenza, forse per timore. Il biasimo, se c’è, non è esibito.
D’altra parte, l’esasperazione è condivisa in questa Istanbul che appare sfregiata. Prima di tutto, dalla militarizzazione totale, a cominciare da quella piazza Taksim che di solito è il cuore pulsante della metropoli e che oggi, transennata e presidiata dai poliziotti, è avvolta da una calma surreale. Ma la città subisce i contraccolpi di questa crisi in tanti modi: «La svalutazione della lira ci sta mettendo in ginocchio, l’economia va male, il turismo ne risente», si lamenta Mehmet, che guida il suo taxi sulle rive del Corno d’Oro. «Di solito in questi giorni di festa abbiamo il pienone, invece adesso è mezzo vuoto», constata facendo riferimento all’Eid al Fitr, la conclusione del mese sacro islamico di Ramadan. «Il diktatör – anche lui usa questa espressione – per smorzare le proteste ha deciso di prolungare da tre a nove giorni le chiusure legate alle celebrazioni. È furbo, e farà di tutto per non lasciare il potere».
Una convinzione, questa, che accomuna tutti i miei interlocutori, anche quelli disinteressati alla politica. Il progressivo smantellamento dei contrappesi democratici portato avanti in questi anni è visto come un dato di fatto: i sostenitori del presidente lo considerano una necessità per contrastare le presunte «minacce interne» e mantenere forte lo Stato in un contesto di grave instabilità regionale. Ma l’equilibrio, oggi, appare più precario che mai. E c’è chi arriva a paventare il rischio di un conflitto civile, tra “due Turchie” che non si riconoscono più a vicenda. La situazione è più complessa di così, e le variabili molteplici, ma è vero che la polarizzazione si sta acuendo. E il fattore generazionale pesa.
«Chi non salta sta con Tayyp», cantano gli studenti alludendo al presidente-padrone. Urlano la loro rabbia, invocano «democrazia». «La magistratura che ha deciso l’arresto di Imamoglu è corrotta: vogliamo che sia rispettata la volontà del popolo», afferma Ayse, giovane studentessa di Comunicazione. E Gül esprime un disagio collettivo: «Molti ragazzi, non solo a Istanbul, si rendono conto che tutto ciò a cui si stanno opponendo i loro genitori l’hanno avallato, votando per Erdogan».