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 2025  aprile 03 Giovedì calendario

Il desaparecido che intervistò Menotti Le ombre del Mundial argentino nel ’78

Assurdo e surreale sono gli aggettivi nei quali di solito ci rifugiamo per evadere l’angoscia che provoca leggere, ascoltare o immaginare la storia di Raúl Lisandro Cubas, nato nell’ottobre del 1951, figlio di un comandante della Gendarmeria, nipote di un colonnello dell’esercito e militante della Gioventù Peronista dal 1973. Risucchiato, insieme a migliaia di ragazzi e ragazze come lui, nell’inferno di quel “Processo di Riorganizzazione Nazionale” iniziato un 24 marzo di mezzo secolo fa.
Un abisso di allucinazioni che si fa più oscuro salendo i piani della Scuola di Meccanica dell’Armata fino alla soffitta detta Capucha, dove i sommersi e i salvati del terrorismo di stato imparavano a riconoscere il rumore del traffico su Avenida Libertador e le partite allo stadio Monumental di Nuñez. È in quel sottotetto senz’aria che il detenuto Cubas, incatenato e incappucciato, passa i primi 3 mesi di prigionia. Dopo un anno e mezzo rinchiuso alla ESMA, alla vigilia dei Mondiali del 1978, i padroni della sua esistenza lo lasciano solo con il direttore tecnico della nazionale argentina César Luis Menotti, per fargli un’intervista. Raúl non gli dice chi è, né da dove viene, comparendo però vicino al Flaco sul quotidiano La Nación del giorno dopo: una foto in cui nessuno, a casa, lo riconosce. Sintesi desolante del soggetto desaparecido.
20/10/1976
Il 20 ottobre del 1976, in uno stadio che ancora non porta il suo nome, Diego Armando Maradona debutta con la maglia rossa numero 16 dell’Argentinos Juniors, club controllato dal generale Guillermo Suárez Mason, responsabile di centri di tortura come il Vesubio, Automotores Orletti o il Garage Olimpo del film di Marco Bechis. Eppure, il giorno in cui il giovane Pelusa marca una delle tappe fondamentali del f útbol argentino, in città è in corso un massacro parallelo e invisibile, una caccia che in poche ore porta alla caduta di un centinaio di Montoneros, il peggior colpo ricevuto dalla guerriglia dall’inizio della dittatura.
El día de las citas nacionales, come lo chiamano, il giorno degli incontri nazionali, scatta con il ritrovamento da parte della Marina di una lista di punti d’incontro contenuta nell’agenda di una militante sequestrata. Il meccanismo è semplice: con la cattura di chi deve presentarsi all’appuntamento e di chi dovrebbe dare l’allarme, quanti si dirigono al luogo prestabilito finiscono in trappola.
Quella mattina di primavera, Raúl Cubas cammina verso la fermata dell’autobus 49 che dalla Tablada, nel distretto de La Matanza, lo avvicina al centro di Buenos Aires. Circondato da cinque Ford Falcon e una decina di uomini armati, ingoia il cianuro che i Montoneros portano con sé per evitare torture e delazioni. «Uno di loro mi punta un revolver alla testa e mi fa stendere. In un momento mi metto in bocca la capsula di cianuro. Mi prendono a calci in testa e nello stomaco, mi ammanettano e mi incappucciano. Mentre mi caricano in un bagagliaio inizio a sentire l’asfissia del cianuro. Sembra banale, ma in pochi istanti rivedo i momenti più felici di una vita, l’infanzia, le partite di pallone in vacanza a Bariloche, mia madre, il primo giorno di scuola, la notizia che la mia compagna dell’epoca mi aveva dato il giorno prima. Era incinta e avremmo avuto un figlio. Ricordo di aver pensato ai miei compagni e aver ringraziato Dio per avermi dato il coraggio di suicidarmi».
Ricordo della morte
«Al risveglio sono steso su altri corpi. La prima intenzione è non respirare, fingere di essere morto. Poi sento una voce dire “Questo hijo de puta è ancora vivo”. Cercano di farmi buttare giù un liquido per vomitare ma ogni volta lo sputo, e alla fine mi pestano e mi addormentano con l’etere. Mi ritrovo ammanettato alla rete di un letto, con le catene ai piedi, una flebo nel braccio e un cappuccio di tela legato al collo che mi lascia appena respirare. Credo di rimanere così un paio di giorni, perché chi dirige l’interrogatorio ripete che se gli do le informazioni che chiede mi lascia libero come regalo di compleanno, che è il 23 ottobre».
Raúl capisce di essere alla ESMA, la Escuela de Mecanica de la Armada: «Sapevamo che la repressione era sistematica, ma non ne immaginavamo le dimensioni. Dal racconto di una compagna sequestrata e rilasciata mi aveva colpito sentire parlare di un pungolo elettrico per il bestiame, la picana, e di topi introdotti nella vagina delle prigioniere».
Tradito dalla capsula di cianuro che avrebbe dovuto salvarlo dai tormenti, Raúl diventa un numero, il 571. Nel silenzio dei mercoledì sera, quando i nominati per il “trasferimento” vengono sedati e caricati sui voli della morte, Raúl grida il suo numero, nella speranza di essere eliminato, un’immagine che ritorna nelle testimonianze dei sopravvissuti contenute nel dossier Nunca Más. «Avevo passato solo due mesi incappucciato, una solitudine totale. Il solo fatto di non poter vedere ti consuma, diminuisce la tua resistenza. La tortura psicologica è ancora più terribile di quella física perché provoca disperazione, pazzia. Per me il tormento peggiore fu la sparizione di mia sorella Maria Georgina e di mio fratello Juan Carlos, nell’aprile del 1977. Lei aveva 23 anni e lui 19. Entrambi sono ancora desaparecidos».
E poi Menotti
Al terzo mese di prigionia Raúl viene messo a lavorare nel settore della ESMA che si occupa di media e comunicazione, una schiavitù che lo mantiene informato e aggrappato al mondo esterno: «Dissi che avevo lavorato nella rivista Siete Dias, ma non sapevo nulla di stampa. Quelli della Marina ne sapevano ancora meno e fu sufficiente».
In verità Raúl era stato un fattorino della storica casa editrice Abril, fondata negli anni ’40 dall’antifascista italiano Cesare Civita, che vanterà tra i suoi collaboratori un giovane Hugo Pratt e i desaparecidos Hector Oesterheld e Rodolfo Walsh. Senza sapere se mai ne uscirà vivo, Raúl continua il lavoro di intelligence negli uffici della pecera, “l’acquario”, una serie di cubicoli con pareti trasparenti che permettono di osservare chi c’è dentro.
Nel maggio del 1978, alla vigilia dei Mondiali, il capitano Juan Carlos Rolón, a capo dell’intelligence della ESMA, riceve l’ordine di effettuare un reportage su César Luis Menotti, d.t. della Selección, per ottenere una dichiarazione d’appoggio al regime con cui rispondere alla Campagna anti argentina dei movimenti europei per i diritti umani. L’incarico ricade su Raúl: «Ero lì da un anno e mezzo, sapevo di calcio e avevo detto di scrivere per una rivista. Quando me lo chiedono naturalmente dico di sì, pur sapendo che certe domande non le avrei fatte. Per quanto fosse probabile che Menotti evitasse determinate questioni, non mi fidavo delle sue posizioni politiche, era vincolato a quella sinistra rimasta passiva di fronte al golpe di Videla». Con documenti e credenziali false fabbricate nella stessa ESMA, come del resto lo furono diversi passaporti di Licio Gelli, grande amico della casa, la coppia Rolón-Cubas entra al ritiro della Nazionale argentina, dove Menotti, tra una sigaretta e l’altra, sta maturando la decisione di escludere Maradona dalla lista dei convocati.
Il dubbio
«Era una situazione controversa, tutti i cronisti si conoscevano tra loro, mentre io e Rolón eravamo come due mosche nel latte. Lui voleva assistere all’intervista, ma gli dissi che ero già abbastanza nervoso. Mi avvicinai a Menotti dopo la conferenza stampa generale. Avevo con me un papelito con tutti i nomi dei compagni e delle compagne rinchiuse in quel momento. Avevo pensato di darglielo, dirgli chi ero e quale fosse la mia condizione, ma lasciai perdere, non sapevo come l’avrebbe presa e come sarebbe andata a finire. Evitai la politica e feci domande di fútbol come un normale giornalista sportivo».
In un momentaneo cambio di gerarchie, quando il capitano Rolón si avvicina, Raúl gli presenta Menotti: «Rolón era muy futbolero, e stringere la mano al Flaco per lui era già una gran cosa. Così dissi “Mister, il signore è un collega”, e tornammo alla ESMA».
L’intervista di Raúl a Menotti esce su Confirmado, la rivista della Cancelleria argentina: «Mi sarebbe piaciuto presentare l’articolo come prova al processo alla Giunta militare, ma quando andai a cercare la rivista, in archivio mancava proprio quel numero del 1978. Quello che conservo ancora è un ritaglio del quotidiano La Nación dove mi si vede mentre ascolto Menotti, con Rolón seduto lì davanti a me».
All’emeroteca della Biblioteca nazionale di Buenos Aires troviamo il giornale con la foto in cui un Cubas in giacca e cravatta fissa il Flaco Menotti, a pochi metri da lui. «Vedendo i fotografi mi ero avvicinato il più possibile, sperando di finire sul giornale, perché a casa potessero vedermi e sapere che ero vivo. Non sapevo quale fosse il mio destino, vivevo giorno per giorno. A casa comprarono La Nación, come sempre, ma non si accorsero che ero io. Effettivamente, potevo essere chiunque».
La vita
Il 25 giugno 1978 l’Argentina vince la sua prima Coppa del Mondo. A Raúl viene concesso di seguire la finale con l’Olanda in casa con la sua famiglia, nel quartiere portegno di Flores. «Mia madre, che ha buona memoria, mi ha raccontato che a fine partita sono uscito per strada con una bandiera argentina e la figlia di mio fratello desaparecido sulle spalle, per seguire la folla verso l’Obelisco. Ancora oggi non ho immagini di quei festeggiamenti. Forse li ho rimossi per il senso di colpa».
Nel gennaio del 1979, grazie anche all’operato del cappellano militare Emilio Grasselli, Raul sbarca a Caracas con la sua attuale compagna, Rosario Quiroga detta Lula, sequestrata in Uruguay con tre figlie piccole e poi trasferita alla ESMA, una delle storie toccate dal romanzo non-fiction “Ricordo della morte” di Miguel Bonasso. Alla partenza da Buenos Aires, un’altra sopravvissuta, Alicia Milia de Pirles, consegna a Raul i ceppi che le hanno bloccato i piedi durante la prigionia. Raul li porta con sè, sapendo che un giorno quei lucchetti con lo stemma della Marina Argentina saranno una prova.
Nel 1983 la rivista Siete Dias, quella per cui aveva detto di scrivere quando era detenuto, pubblica il “Primo reportage a un desaparecido”. A Posadas, in provincia di Misiones, una donna riconosce Raúl in copertina: è la stessa ragazza che gli aveva confidato di essere incinta il giorno prima del suo sequestro. Scappata al nord perché la loro figlia potesse salvarsi e crescere in pace, non sa nulla di lui dal 1978, quando Raúl, scortato dall’agente Roberto Oscar González, poi imputato per la morte di Rodolfo Walsh, aveva ottenuto il permesso di uscire dalla ESMA per conoscere la loro bambina, Victoria Sol Cubas. Oggi Victoria è medica, vive in Patagonia e il 24 marzo, come ogni anno, lo ha passato con Raúl.