Corriere della Sera, 3 aprile 2025
Lorenzo Necci, il padre dell’Alta Velocità: «Quarantadue processi, sempre assolto. Dopo l’arresto fu lasciato solo»
«Oltre a essere uno dei più lucidi e visionari manager di Stato del Dopoguerra, anzi forse nonostante questo, mio padre è stato un uomo di luce e un puro di cuore. Uno per cui l’idea, il progetto e il proprio Paese venivano prima di tutto, anche del suo destino personale. E questo, nel momento in cui è stato travolto da un’inchiesta giudiziaria che gli è valsa quarantadue assoluzioni, ha pesato e gli ha pesato, tantissimo. Alcune delle persone che gli dovevano tutto hanno smesso di telefonare, spariti nel nulla. Le Ferrovie, che vivono ancora oggi delle sue intuizioni di trent’anni fa – l’Alta Velocità, i treni pendolari e merci, l’intermodalità, le grandi stazioni, l’ingresso dei privati in Fs – dovrebbero onorarlo come merita. I ferrovieri semplici, com’era stato suo padre Romolo, lo fanno: alcuni mi scrivono ancora, l’altro giorno ne ho incontrato uno che mi ha fatto vedere una foto con papà che ha nel portafoglio».
Alessandra Necci, biografa storica e direttrice delle Gallerie Estensi, ricorda suo papà, Lorenzo; che da numero uno delle Ferrovie era stato il papà, tra le altre cose, dell’Alta Velocità. Necci, uno dei pochissimi manager pubblici usciti indenni dall’epoca di Tangentopoli, venne poi arrestato nel 1996 per un’inchiesta sbriciolatasi a colpi di assoluzioni e ucciso in un incidente stradale dieci anni dopo in Puglia.
Qual è il suo primo ricordo di suo padre?
«Lui che mi canta Io te voglio bene assaje, con Murolo in sottofondo. Pur essendo legato alla sua terra, la Ciociaria, amava i colori di Napoli, la sua musica, la Costiera. Il legame tra di noi era profondo, forse perché alla nascita avevo rischiato di morire per un’infezione. Mi salvò una pediatra ebrea-americana. Forse anche per questo il rapporto di papà con gli Stati Uniti e Israele è stato stretto. Come con la Francia, dove andai a studiare».
All’epoca, inizio anni Settanta, suo papà faceva il manager privato di società estere e girava il mondo.
«Parlava quattro lingue, a suo agio ovunque. Ma era talmente luminoso che non potevi non avvertire che c’era, sempre. Aveva imparato a cucinare da sua mamma, mia nonna Maria. E aveva la capacità di assaggiare un piatto, magari di uno chef stellato, e di replicarlo tra i fornelli di casa, identico. Da noi venivano tutti e cucinava lui. Il sabato ci concedeva il lusso di saltare scuola per il rito della spesa fatta bene: il pesce comprato a Fiumicino, la frutta dai contadini. E amava curare l’orto e il giardino».
Chi frequentava casa Necci?
«I manager, i banchieri, gli imprenditori, i sindacalisti. Gli ambasciatori francesi, americani, inglesi, tedeschi. Intellettuali, artisti, stilisti. Direttori dei giornali e dei tg. Il mondo politico. Ugo La Malfa, con cui c’era stato questo legame nato negli anni Sessanta. Gianni De Michelis e il fratello Cesare, Guido Bodrato, Giuliano Amato, Pinuccio Tatarella, Gianni Letta. Anche se il ricordo più indimenticabile io e mio fratello ce l’abbiamo di una cena a cui venne Giovanni Spadolini».
Che ricordo è?
«Era il 1979, eravamo bambini e Spadolini ministro della Pubblica Istruzione. Era appena stata soppressa la festività della Befana, e quindi in quel giorno si andava a scuola. Chiedemmo a papà il permesso di protestare con lui, perorando la causa del ritorno alla festività del 6 gennaio».
Come andò?
«Un disastro perché Spadolini non era abituato ai bambini. E poi mio fratello ebbe l’idea di mettergli sotto il naso un libro di Forattini, che lo raffigurava in una vignetta. Mio padre ci disse sorridendo che con le pubbliche relazioni eravamo un po’ indietro nel programma».
I ricordi più intimi?
«Quando sapeva che un film aveva un finale triste, ce lo risparmiava con una scusa. Per anni non seppi che in Via col vento Melania moriva perché, nel guardarlo insieme a lui, sempre allo stesso punto interrompeva la visione con un pretesto. Però era molto esigente sui risultati: se prendevo trenta a un esame, mi chiedeva come mai non ci fosse la lode».
Del padre sensibile c’era traccia nel potente manager pubblico?
«Erano, per alcuni aspetti incredibilmente, la stessa identica persona. Aveva per la cosa pubblica la medesima sensibilità che aveva nei confronti della famiglia. Credeva nelle grandi virtù. Era ossessionato dal merito, dal progetto. E dall’idea che le infrastrutture materiali e immateriali avrebbero fatto la differenza, per l’Italia. Ripeteva che l’Impero romano, senza le strade, il latino e il diritto, non sarebbe esistito».
Religioso?
«Alla fine del 1989 sembrava che dovesse essere nominato presidente dell’Eni. Chiamò il presidente Cossiga, cui era molto legato, per congratularsi. C’era una folla di giornalisti sotto casa. Ma lui non si trovava: era entrato in una chiesa a pregare».
Chi erano i nemici di suo padre?
«Aveva un’idea di Italia ben definita, figlia anche dell’ascensore sociale che aveva portato lui, con una famiglia semplice alle spalle, a scalare le cime delle aziende di Stato. Un’idea improntata al rispetto delle risorse pubbliche: da vertice dell’azienda, non si è mai fatto assumere dalle Ferrovie, da cui è andato via senza una mezza lira di buonuscita. E nemmeno la pensione. Per non parlare dello stipendio».
Non ha risposto alla domanda.
«Ci stavo arrivando, ma non voglio fare la lista dei buoni e dei cattivi. Mio padre era contrario alla svendita del Paese. Pensava che prima delle privatizzazioni andassero fatte le liberalizzazioni. Non è andata come voleva. Uomo di visione, aveva presagito la globalizzazione e lavorava a un’Italia leader al centro dell’euromediterraneo».
Da presidente di Enimont era entrato in rotta di collisione con Raul Gardini.
«Personalità all’opposto. Gardini era l’uomo de “la chimica sono io”; mio padre era intriso di concetti come interesse pubblico, bene comune. E nel febbraio del 1990 fu costretto a dimettersi».
La politica?
«Era l’uomo chiave del “tentativo Maccanico”, l’ipotesi che nel 1996, dopo il governo Dini, nascesse un governo di ampio respiro per mettere in cantiere le riforme, guidato da Antonio Maccanico, in cui mio padre sarebbe stato ministro dell’Economia o di un superministero con Trasporti e Attività produttive. Aveva tessuto parte delle trattative, che andavano da D’Alema a Berlusconi a Fini; non se ne fece nulla e in parecchi poi si pentirono».
Fabrizio Cicchitto ha scritto in un suo libro che le vicende giudiziarie di suo papà erano legate a quel momento e al ruolo che avrebbe potuto avere nelle istituzioni. Lo pensa anche lei?
«Posso anche pensarlo ma non ho elementi per provarlo. So solo che mio padre venne arrestato alla fine del 1996 mentre eravamo a pranzo nella nostra casa di Tarquinia, in cui da allora non volevamo rimettere piede. Poi, con dolore, la vendemmo. Papà fu portato in prigione senza sapere di cosa lo stessero accusando. Quando uscì, alla fine di una detenzione su cui la Cassazione espresse una sentenza netta, la prima cosa che fece fu scrivere al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, con un rendiconto del suo operato alle Ferrovie che si concludeva così: “Ho la certezza di non aver mai tradito la fiducia degli azionisti, le attese dei cittadini, l’onore del mio Paese”».
Risposte?
«Nessuna. Papà venne lasciato solo. Dopo la sua scomparsa, con la mia famiglia siamo stati bersagliati da problemi, cause legali. Aggiungo, però, che negli anni ho avuto anche vicine persone straordinarie, cui devo molto. Il mio dovere, oggi, è quello della memoria e della gratitudine: per l’affetto e gli insegnamenti ricevuti. Lo vorrebbe anche papà, grande lettore delle Memorie di Adriano, passione che mi trasferì accettando che in cambio io lo “contagiassi” col Piccolo principe».
In tanti pensano che l’incidente di cui suo padre è stato vittima nel 2006, in Puglia, sia avvolto nel mistero.
«Tasto doloroso. Mio padre morì il giorno in cui lo arrestarono. Lo dico senza retorica e la prego di credermi: avendo visto da figlia quello che ho visto, avrei dato la mia vita perché non accadesse. Mi chiamarono per dirmi dell’incidente che ero in una villetta in affitto all’Argentario. Non ci sono più tornata. Né là; né, tolta una volta, in Puglia. Un’ora prima di essere avvisata, mi ero accasciata per un malore senza cause. Ho ricostruito: era l’esatto momento in cui, a mille chilometri di distanza, lo avevano investito. Sono diventata biografa anche per questo: per restituire la voce a chi non può più parlare, per riabilitare chi lo merita. Un grande Paese ha il dovere di ricordare chi l’ha reso tale. Come mio padre, appunto. Si muore davvero solo quando si viene dimenticati».