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 2025  aprile 03 Giovedì calendario

John Simenon: “Tutto su mio padre molto più di Maigret”

John Simenon confida l’emozione a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra Otto viaggi di un romanziere, dal 10 aprile negli spazi della Galleria Modernissimo a Bologna. «Erano almeno dieci anni che desideravo fare una mostra dedicata a mio padre in Italia» racconta Simenon, 76 anni, parlando dalla Svizzera. Il figlio del romanziere, custode di un’inestimabile eredità letteraria, ha lavorato a lungo nel cinema e non è un caso che il desiderio si sia concretizzato nella collaborazione con Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna. Il risultato è una mostra evento, una delle più complete e ricche mai realizzate su Georges Simenon. Un ritratto profondo e sfaccettato del romanziere, scomparso nel 1989, attraverso manoscritti, lettere, fotografie e oggetti personali, molti dei quali inediti. Dai primi passi a Liegi fino al riconoscimento mondiale, otto sezioni per otto viaggi, non solo geografici, segnati da incontri cruciali come quelli con Joséphine Baker, André Gide o Federico Fellini.
Qual è il filo conduttore della mostra?
«Il tema che abbiamo scelto con Farinelli è quello dell’uomo in movimento. Maigret ha una sua stabilità. Mio padre, invece, non amava essere rinchiuso: né in un’ideologia, né in uno stile, né tantomeno in un luogo. Appena percepiva di trovarsi in una gabbia – sociale, creativa o personale – si muoveva. E non si trattava solo di movimento fisico, nonostante i tanti viaggi. Era soprattutto un movimento interiore, una forma di resistenza a qualsiasi etichetta.
Non si sentiva né di destra né di sinistra, era in dissenso con la Chiesa anche se portatore di una forma di etica profondamente cristiana. Forse è proprio qui che bisogna cercare la coerenza della sua opera: nella tensione tra il caos del mondo e la ricerca di senso».
Nel 1972 scrive l’ultimo Maigret, e decide di smettere di scrivere. Gliene parlò?
«All’epoca vivevo in California e non ero in Svizzera con lui. Mi scrisse in una lettera che aveva deciso di smettere di scrivere.
Non era un progetto meditato o pianificato. Fu una decisione presa all’improvviso, e comunicata in modo molto semplice, quasi come se fosse un’evidenza. Per noi figli non fu uno shock. Rimaneva comunque nostro padre».
È stato difficile avere George Simenon come padre?
«Era un padre protettivo. Ha offerto ai suoi figli uno spazio sicuro, un rifugio dalle angosce del mondo che conosceva bene esfogava nei suoi libri, mai su di noi. Era presente, comprensivo.
Quello che oggi rimpiango è di non avergli posto alcune domande. È un rimpianto che credo molti figli condividano: ci si rende conto troppo tardi che c’erano cose importanti da chiedere, da dire, da condividere. E poi si scopre che il tempo è passato».
Perché questo legame così forte con l’Italia?
«Non ho una risposta definitiva, ma è un fatto incontestabile.
L’Italia rappresenta oggi circa un terzo del pubblico mondiale dei libri di mio padre. E non è una novità: Mondadori è stato il suo primo editore straniero, fin dagli anni Venti. Ma è con Adelphi, allafine degli anni Ottanta, che i cosiddetti “romanzi duri” hanno trovato un’eco altrettanto profonda quanto i Maigret. C’è una forma di affinità con i lettori italiani che forse è legata a un modo di vivere la spiritualità, o a una flessibilità culturale nel leggere la realtà. Ne parlai spesso con Alberto Calasso, che diceva che il successo di Simenon in Italia è quasi un miracolo. Resta un mistero».
Nell’opera di Simenon, diceva, c’è una forma di spiritualità spesso dimenticata.
«È una lettura che mi piacerebbe venisse esplorata molto di più, rispetto a quelle più sociologiche che prevalgono. I fratelli Dardenne ne parlano nel catalogo della mostra di Bologna; ho in mente anche un testo di François Sureau che analizza la spiritualità diffusa nell’opera di mio padre. È la concezione di un Male inseparabile dal Bene, all’interno del quale è rinchiuso l’uomo e da cui è possibile liberarsi solo attraverso un altro tipo di prigionia: il crimine, la morte, il suicidio, l’alienazione o la follia. Riflettendoci questa visione, segnata dall’educazione cristiana di mio padre, potrebbe essere una chiave per capire l’affinità tra la sua opera e il pubblico italiano».
La mostra svela anche la corrispondenza tra suo padre e Federico Fellini. Era una relazione importante?
«Mio padre difese Fellini quando era presidente della giuria a Cannes e la Dolce Vita venne accolto dai fischi. Lui non arretrò, sfidò il parere generale, e così permise al film di ottenere la Palma d’Oro. Fu un gesto coraggioso, che probabilmente ha pesato nel rapporto con Fellini. La lorocorrispondenza è segnata da un grande pudore. Si scrivevano, ma senza un vero dialogo. Ognuno esprimeva la propria ammirazione per l’altro in modo quasi impacciato. Mio padre era molto riservato nei rapporti personali».
Conoscendo la sua opera e i temi intimi che affrontava nelle interviste, è difficile immaginare un uomo pudico.
«Nella sua vita privata, soprattutto nel rapporto con noi figli, non si esponeva mai in modo diretto.
Non era un rifiuto di comunicare – anzi, era molto disponibile – ma si esprimeva più liberamente nei suoi scritti o nelle interviste.
Poteva affrontare temi personali, come la sessualità, di fronte a un giornalista o in un romanzo. Era come se scrivere gli permettesse di abbattere barriere che nel contatto diretto preferiva mantenere».
Un romanzo che le sta particolarmente a cuore?
«Ho smesso di leggere mio padre quando ero adolescente e avevo scoperto inLe Confessional un ragazzo con l’apparecchio ai denti, i brufoli, appassionato di mitologia greca. Ero io a sedici anni. Non era un romanzo autobiografico ma quei dettagli erano per me sin troppo familiari. C’è stata una lunga pausa. Poi intorno ai quarant’anni, sono tornato alla sua opera quasi per caso, iniziando con La neve era sporca.
Quel romanzo ha provocato in me un cambiamento interiore profondo. Da allora ho capito che l’opera di mio padre è di una ricchezza inesauribile. La vicinanza con lui mi aiuta a comprendere i suoi testi dall’interno, a sentirne la coerenza intima. InLa neve era sporca, per esempio, uno dei personaggi dice: “Il mestiere di uomo è difficile”. È una frase che mio padre mi ripeteva spesso, quasi ogni settimana».