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 2025  marzo 30 Domenica calendario

Un pontificato grandioso e controverso Vent’anni fa la morte di Giovanni Paolo II

Vent’anni fa, la sera del 2 aprile 2005, si spegneva Giovanni Paolo II. Con un’agonia drammatica – dopo due mesi di tribolazioni – si concludeva in Vaticano il suo lunghissimo, controverso e grandioso pontificato.Più di Karol Wojtyła aveva regnato, per trentadue anni, solo Pio IX, che nel 1870 aveva assistito al crollo dello Stato pontificio, ma anche agli inizi dell’irradiazione mondiale della sede romana. A sua volta, quell’uomo venuto da «un paese lontano» – primo vescovo di Roma non italiano da oltre quattro secoli – aveva contribuito nel 1989, due secoli dopo la Rivoluzione francese, a un altro crollo, quello del Muro di Berlino. Ma soprattutto, con 104 viaggi internazionali, durati ben 822 giorni, aveva reso itinerante e molto visibile il papato.
Il cardinale polacco, che negli anni Settanta le foto in bianco e nero ritraevano come un attore americano dal sorriso lievemente ironico, appena accennato sotto un borsalino calcato sulla testa (ma anche come un cardinale seicentesco avvolto da un bianco ermellino), era stato eletto a cinquantotto anni il 16 ottobre 1978 dopo un difficile conclave. L’attentato del 13 maggio 1981 l’aveva quasi ucciso, poi il declino era stato lento ma progressivo.
Nell’estate di quell’anno una insidiosa infezione ospedaliera, debellata solo dalla paziente ricerca farmaceutica del religioso australiano Fabian Hynes, fu il primo segnale. Poi, tra il 1992 e il 1996, quattro interventi chirurgici – al colon, a una spalla, a un femore (con protesi sbagliata all’anca), l’appendicectomia – e i sintomi del Parkinson.
L’ultimo viaggio
Penoso è l’ultimo viaggio internazionale, nell’agosto 2004 a Lourdes, dove il papa si descrive come un malato tra i malati, ormai ridotto in sedia a rotelle. Cinque mesi più tardi, la sera del primo febbraio 2005, per gravi problemi respiratori viene ricoverato d’urgenza al Gemelli, il grande policlinico romano dell’Università cattolica del Sacro cuore. Wojtyła lo conosce bene e lo ha ribattezzato – con un ammiccante gioco di parole che allude al concilio – «il Vaticano III», perché divenuto ormai residenza papale dopo il Vaticano e Castel Gandolfo.
Il 7 febbraio esce il suo ultimo libro, Memoria e identità (Rizzoli), frutto di conversazioni tenute nel 1993 con i filosofi polacchi Józef Tischner e Krysztof Michalski, rivisto nell’estate precedente da un amico anch’egli filosofo, Andrzej Półtawski. E subito si capisce il motivo: rendere nota la convinzione del papa e dei suoi collaboratori sull’attentato, opera di un assassino professionista gelido e impeccabile (anche nei depistaggi), l’estremista turco Mehmet Ali Ağca.
L’attentato
Con i due amici, Wojtyła aveva infatti parlato anche del 13 maggio 1981. «Sì, ricordo quel viaggio verso l’ospedale. Per un po’ di tempo rimasi cosciente. Avevo la sensazione che ce l’avrei fatta. Stavo soffrendo, e questo era un motivo per temere – nutrivo però una strana fiducia», aveva detto allora il pontefice.
«Torniamo all’attentato: penso che esso sia stata una delle ultime convulsioni delle ideologie della prepotenza, scatenatesi nel XX secolo. La sopraffazione fu praticata dal fascismo e dal nazismo, così come dal comunismo. La sopraffazione motivata con argomenti simili si è sviluppata anche qui in Italia: le Brigate rosse uccidevano uomini innocenti e onesti», aveva continuato nel 1993 Giovanni Paolo II, scandendo parole caute ma inequivocabili. E presto si scoprirà che riprendono quelle aggiunte, nel 1982, nel testamento pubblicato subito dopo la morte.
Scrive il suo miglior biografo, il giornalista e scrittore Bernard Lecomte, che l’entourage romano del papa resta convinto della «domanda chiave, rimasta senza risposta: chi più del Cremlino, nella primavera del 1981, aveva interesse alla sparizione del papa?». E, se nulla è emerso dagli archivi di Mosca dopo la fine dell’Unione sovietica, lo storico russo Viktor Zaslavskij – che quegli archivi aveva indagato e conosceva bene – faceva osservare come fosse ingenuo e dunque inutile ricercare un ordine scritto: non ce n’era bisogno. 
Gli ultimi giorni
Wojtyła apre la Quaresima celebrando la messa del Mercoledì delle ceneri al Gemelli, ma il rientro in Vaticano avviene poche ore dopo, il 10 febbraio: in papamobile, come in un viaggio, circondato da una folla impressionata dalla tenacia del pontefice pur stremato dal Parkinson. Passano due settimane, e una crisi acuta rischia di soffocarlo. Un vecchio amico, il cardinale ucraino Marian Jaworski, gli dà l’estrema unzione. Ancora un ricovero, ma stavolta, il 24 febbraio, a Giovanni Paolo II viene praticata la tracheotomia.
Il 13 marzo il papa torna in Vaticano, e quasi non parla più. Sette giorni dopo, Domenica delle Palme, benedice la folla. Venerdì santo – è il 25 marzo – segue per televisione la Via crucis presieduta al Colosseo dal cardinale Joseph Ratzinger, prefetto dell’antico Sant’Uffizio, e sorprende la sua denuncia della «sporcizia» nella chiesa: gli abusi commessi dai preti. Giovanni Paolo II è nella cappella dell’appartamento al terzo piano del Palazzo apostolico e si mostra di spalle, il viso rivolto a un grande crocifisso di legno, come appare nelle immagini proiettate al Colosseo.
Nemmeno per la benedizione pasquale urbi et orbi, «alla città e al mondo», il pontefice riesce a parlare. Il dramma si ripete mercoledì 30 marzo, ultima apparizione in pubblico, senza «neppure la reazione di insofferenza che aveva avuto a Pasqua. Ormai sapeva, era pronto», ricorderà il suo medico Renato Buzzonetti.
L’agonia inizia nella tarda mattinata del 31 marzo, mentre Giovanni Paolo II si sta preparando per celebrare la messa. Nel pomeriggio Jaworski lo unge ancora con l’olio santo. Al letto del papa si succedono per salutarlo medici, infermieri, collaboratori. L’ultimo giorno un altro amico, il moralista don Tadeusz Styczeń, comincia a leggergli il vangelo di Giovanni, come faceva sempre da studente, ma non arriva oltre il nono capitolo.
Due donne restano vicine a Wojtyła: l’amica di sempre Wanda Półtawska, torturata dai nazisti, medico e moglie di Andrzej, e la fedelissima suor Tobiana Sobotka. Anche in quei giorni drammatici Dusia – così da mezzo secolo Karol chiama la «sorellina» – e la religiosa si alternano a leggere al papa libri religiosi e di letteratura.
Dell’ultimo libro «è mancata solo una pagina. L’ho letto fino a mercoledì, poi i medici ci hanno disturbato», scrive Wanda (mal sopportata dal segretario personale del pontefice, Stanisław Dziwisz). Poi aggiunge di non aver mai incontrato «una persona che leggesse così tanto, conducendo una vita così attiva». È la sera del 2 aprile 2005 quando Giovanni Paolo II entra in coma. Secondo una tradizione polacca una candela viene accesa alla finestra della sua stanza. Quando alle 21.37 il papa muore, suor Tobiana – raccolto il suo ultimo sussurro – è in ginocchio e ha la mano appoggiata sulla testa di Karol Wojtyła.
Il rapporto con gli ebrei
Molto si è scritto su Giovanni Paolo II, la cui morte suscita un’enorme emozione tra credenti e non credenti. I suoi due successori lo proclamano beato nel 2011 e santo nel 2014, ma la tempesta degli abusi – sicuramente deficitaria è la gestione dello scandalo da parte del pontefice, come ammette anche il biografo a lui più favorevole, George Weigel – si abbatte sulla memoria del papa polacco: già nel 2019 in Francia un appello propone la sua «decanonizzazione», e l’anno successivo dagli Stati Uniti arriva la proposta di eliminare almeno il culto pubblico dell’ultimo papa santo.
Gian Franco Svidercoschi, giornalista di lunghissimo corso che ha seguito il concilio e conosciuto da vicino Wojtyła, accusa i collaboratori del pontefice. «Non è forse vero che, nei piani alti del Vaticano, c’era qualcuno molto autorevole che minimizzava lo scandalo?», scrive in Karol (Il Pozzo di Giacobbe), che tra i libri da lui dedicati a Giovanni Paolo II è il più felice, anche se non sempre convince. 
Ma nelle centocinquanta pagine appena uscite il ritratto è completo, con testimonianze inedite, e la prosa del cronista di razza trascina. Con un’attenzione storicamente ineccepibile sul passato in Polonia – indispensabile per capire il papa – e con insistenza sul rapporto che Wojtyła ha avuto con gli ebrei: indispensabile per i cristiani. 
A sigillo del libro, «Svider» sceglie il commento di Eugène Ionesco alla prima visita in Francia di Giovanni Paolo II. Molti che lo hanno ascoltato «hanno per la prima volta udito un uomo che si indirizzava a loro parlando di fede e non di politica. Dalla fede scaturiscono la buona politica, la vera giustizia, la quale prima di essere giustizia, è carità».