il manifesto, 30 marzo 2025
Max Jacob, cubismo stravagante
«Non posso vivere se lui non è mio amico»… «Sei tu che nella notte illumini le stelle»… Il rapporto di intimità fra Max Jacob (che qui scrive) e Pablo Picasso, psicologicamente complesso, fu oggetto, nel 1994, di una mostra riassuntiva a Quimper (città natale del poeta, l’ascendenza bretone da lui antropologicamente rivendicata) e al Musée Picasso di Parigi. Recentemente, a Céret, il villaggio francese-catalano dei Pirenei orientali in cui Jacob fu ospite del pittore, e della sua nuova compagna Eva Gouel, in un felice soggiorno dall’aprile al giugno del 1913, un’altra mostra (catalogo Lienart) ha inteso focalizzare, a partire da quell’occasione, Le cubisme fantasque, il cubismo stravagante – e incompiuto –, della sua produzione grafica e pittorica, in rapporto alla scena di riferimento, innanzitutto Picasso, ma anche Juan Gris, Marie Laurencin, Moïse Kisling, Jean Metzinger, Serge Férat, la baronessa Hélène d’Œttingen (alias François Angiboult), Louis Marcoussis, Alice Halicka.
Protagonista, accanto ad Apollinaire e Salmon, della poesia fantasista che negli anni dieci del Novecento mise in causa, nel modo più spregiudicato, gratuito, avventuroso, la regalità dell’io, Max Jacob scrittore trovò nella cosiddetta forma cubista, nelle sue qualità costruttive, una certa compensazione stilistica al suo dolente vaneggiare, al bisogno fisiologico di sradicarsi, disseminarsi in figure e stati d’animo, specialmente nel registro della burla e della parodia. È soprattutto nella raccolta di poesie Le Cornet à dés, del 1917, che egli definì i termini di questa opzione di stampo modernista, in cui «“trapianta” la lettura di un mondo in rilievo, in perpetuo cambiamento» (Antonio Rodriguez, saggio in catalogo).
Nell’anteguerra, invece, durante la stagione più feconda delle sue frequentazioni cubiste, era stata soprattutto la vena primitivista bretone, di quel «paese strano, selvaggio, desolato», come si era espresso a proposito dei dipinti di Lucien Simon, a ispirare le sue scritture, in particolare il poema La Côte (1911), pretesa «raccolta di canti celtici, antichi, inediti», in realtà bizzarra invenzione di un mondo a parte, abbastanza prossimo alle fantasie di Pont-Aven. La stessa adesione letteraria al cubismo, del resto, sarà condotta da Jacob con un marcato spirito di indipendenza, che spiega la soppressione, nella seconda edizione del Cornet à dés, 1923, di ogni referenza in tal senso.
Max Jacob, “Paysage de Céret”, data sottoscritta 1910, in realtà 1913, Céret, Musée d’art moderne
E sul versante figurativo? Il ricorso al cubismo è perfino più timido e generico, e comunque limitato a brevi intervalli di tempo. Prima di conoscere Picasso, nel 1901 da Vollard, Max Jacob si era compiaciuto, traendone spunti, delle frizzanti trovate, fra parodia e calembour, degli artisti «incoerenti», movimento di fine Ottocento creato da Jules Lévy, che lo aveva collegato all’umorismo degli Hydropathes: insomma, l’immaginario gratuito, senza scopo di arte, caro a Fénéon o a Duchamp. La tendenza alla fuga ludica propria del giovane Jacob aveva trovato in questo milieu la giustificazione di un’espressione visiva dilettantesca e scapricciata, a cui mai rinuncerà, neanche quando i suoi disegni e gouaches (rare le tele) diventeranno per lui, poverissimo, l’unica fonte di sostentamento. Del resto fu proprio la freschezza para-artistica dei suoi fogli a decretarne il successo nella cerchia degli affezionati.
L’internità al mondo di Picasso non poteva, in ogni caso, renderlo del tutto insensibile alle suggestioni dell’arte nuova, che egli aveva visto nascere e crescere, testimoniandone convintamente, seppure non con il piglio militante di un Apollinaire o di un Raynal. Le occasioni di prossimità con il nuovo linguaggio agivano. Per illustrare Saint Matorel, primo volume della trilogia in cui Jacob racconta, nel modo più ironico e frammentato, traspostamente autobiografico, le disavventure di un operaio del métro parigino che si converte al cattolicesimo, diviene monaco e accede alla santità, D.-H. Kahnweiler, marchand-éditeur, chiese l’intervento di Picasso, e ne sortirono quattro piccoli capolavori dell’acquaforte cubista, che annunciano la fase analitica: il libro uscì nel 1911. Nel ’12 Jacob pubblicò sulla rivista «La Publicidad» di Barcellona, in occasione della mostra cubista alla galleria Dalmau, un Petit guide pratique de l’amateur du cubisme. Caustico, tra serio e faceto, consiglia di «arrivare davanti al quadro senza partito preso di sarcasmo facile», prima di «lasciarsi trasportare verso le regioni dell’Allusione potentemente squisita»…
A Céret, un anno dopo, Jacob si prova a dare un ordine costruttivo di tipo nuovo, in una serie di disegni – varie le tecniche –, soprattutto paesaggi, di sottigliezza ritmica, dai colori armoniosi: alcuni se son visti alla recente mostra. Realizzati sotto l’occhio «indulgente» di Picasso, i «saggi cubisti» di Max, come egli stesso riferisce in una lettera a Kahnweiler, «non sono nel gusto del mio maestro. Gli altri miei saggi poco mi soddisfano». Scomparsi presto dalla circolazione, questi disegni spesso acquarellati, di cui non fanno cenno i primi studiosi del Jacob peintre d’images (André Salmon 1922, Florent Fels 1923, Robert Guiette 1931), sono poi divenuti oggetto di un piccolo culto amatoriale, facente capo al collezionista e mercante turco-parigino Joseph Altounian, che ne acquistò un gran numero, e al gallerista André Level, che nel 1926, volendo mercanteggiare sulla compravendita, «sono unici», ebbe in risposta da Jacob. Ancora oggi questo corpus riposa in gran parte nel segreto di alcune collezioni private.
Dopo Céret, la vena cubista di Jacob riemergerà, quasi una reminiscenza di quella primavera edipica, in una serie di croquis tardivi, fra anni trenta e quaranta: un potente Vaches à la rivière è proprietà del Musée d’art moderne di Céret, dono della vedova di Pierre Colle, il gallerista poeta di cui Max fu mèntore, sino ad affidargli, nel testamento, il suo legato universale.
Ma il quid figurativo di Jacob non fu cubista: in una lettera del 1922 al pittore naïf René Rimbert, nel dettagliare tredici ragioni in questo senso, affermò: «Il fondo del mio ventre è “opéra-comique”». Fu attratto irresistibilmente dalle magie di tutte le arti sceniche, anticipando nell’anteguerra un tratto della sensibilità culturale che sarà proprio degli anni venti, con Jean Cocteau. La scena, in particolare il circo, offriva a Max Jacob un repertorio di travestimenti funzionale alla sua personalità multipla, al suo immaginario caleidoscopico.
È su questa base esistenzial-tematica che meglio si innesta l’ascendente picassiano. Nel 1905, sappiamo, i due amici si appassionavano alle performances del circo Medrano, la cui atmosfera ispirò a Picasso il celebre busto di Jacob Le Fou, e anche a Céret, non lontano dall’«appartamento vaso, colossale (Musée de Versailles)» della pensione Delcos, dove alloggiavano, poterono godere, al circo Brion lì installato, delle esibizioni di acrobati, cavallerizzi, clown à moustache, e anche dello «charme» che sprigionava, come scrisse Jacob a Kahnweiler, «la piccola folla gioiosa degli spettatori turbolenti e paesani». Picasso, del resto, proprio a Céret ripescò, dai trascorsi rosa, il motivo dell’Arlecchino, in una tela di nuovo conio, linee astratte e geometriche, oggi nel museo de L’Aia.
Il linguaggio cubista è troppo costruito: se in certe «poesie» di Jacob, Marcel Raymond vide «la semplice trascrizione di un monologo parlato», «una possibilità di sorprendere se stesso lasciando affiorare certe movenze che sembrano gratuite», nella produzione figurativa, segnata da una sublime fragilità di condotta, da una minorità perfettamente in linea con il rifiuto, già dadaista, di ogni preoccupazione creativa, questo è tanto più vero.
Nel 1912, avanti la primavera di Céret, Jacob realizzava una delle sue tele più ambiziose, Au cirque, oggi al Petit Palais di Ginevra. Qui l’artista saltimbanco, il dandy omosessuale che aveva visto il Cristo sulla parete nella scura stanzetta di rue Ravignan, che, ebreo convertito, sarà prelevato dal ritiro benedettino di Saint-Benoit-sur-Loîre per finire i suoi giorni nel lager francese di Drancy, realizzava una frittata di segni, onirica, dai colori terrosi con rialzi di bianco, di rosso, di giallo, ingredienti Arlecchino, Pierrot, Scaramouche, il Capitano, un pubblico in virgole, l’angoscia di esistere, la smania di fuggire, di ricercare il luogo, talché, di nuovo con Raymond, «un realismo apparente che è soltanto una menzogna», e, con Jean Cassou, «un oggetto innominato e dotato di una certa vita mostruosa e diabolica». Pur con tutto l’ausilio ai poeti fantasisti quanto a liberazione dell’immagine, come poteva il cubismo dar ragione completa dell’irrequieta mobilità creativa di questo adorabile «errore persistente»?