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 2025  marzo 30 Domenica calendario

Isnenghi, viaggio nell’istruzione italiana

«Perché non ti decidi a venire anche tu dal De Sanctis? Se fai tanto da sentirlo una volta sarai dei nostri». A un invito tanto perentorio non si poteva sottrarre. Così anche Pasquale Villari, il futuro storico positivista, senatore e ministro, si unì alla schiera degli entusiasti alunni del trentenne maestro di Morra Arpina (Avellino) nel clima di rivolta antiborbonica che maturava tra una lezione e l’altra. Durante il tumulto scoppiato nel maggio ’48 Luigi La Vista, il discepolo prediletto, fu ferito a morte e divenne l’eroe simbolo di una comunità in cui erano uniti studio e azione. Il docente che la conduceva ricordò quell’esperienza con parole inequivocabili:«quando venne il giorno della prova, e la patria ci chiamò, maestro e discepoli decidemmo. Ma che? La nostra scuola è per avventura un’accademia? Siano noi un’arcadia? No, la scuola è la vita».
Il viaggio che propone Mario Isnenghi, prestigioso e prolifico cattedratico di Storia contemporanea a Padova, Torino e Venezia, può prendere avvio da qui. Nella sua avvincente Autobiografia della scuola Da De Sanctis a don Milani (il Mulino «Biblioteca storica», pp. 368, € 26,00) la peregrinazione degli insegnanti e l’intarsio dei loro trasferimenti invitano alla conoscenza di un’Italia lontana da quella tratteggiata dalla Storia della letteratura italiana (1870-’71) che De Sanctis aveva cominciato a scrivere nel 1858. Se per quell’opera l’autore aveva deliberatamente scelto la struttura di un «romanzo», come con una punta di sufficienza la bollarono i filologi, la geografia degli itinerari disegnati da Isnenghi illumina un insieme di luoghi e presenze dotati di una loro autonomia: una rigogliosa pluralità di tradizioni e di lingue, di scuole e tendenze. E scuola è intesa quale funzione educativa in grado di coprire ogni ordine e grado dell’istruzione, tesa a istillare un senso di condivisa appartenenza nazionale. Le officine sparse per la penisola erano – e sono – caratterizzate da identità che ambivano a convivere in un panorama solidale di scambi e rapporti.
LA REDAZIONE CONSIGLIA:Esercizi di libertà e rammemorazioneL’autobiografia collettiva di questa macchina amministrava si giova di diari e registri di classe, dei più compulsati manuali e di una letteratura che aveva a tema-fulcro la pedagogia praticata con dedizione, il vissuto del «nomadismo professorale» e non solo l’architettura burocratica con la quale era necessario fare i conti. Intensa appare la circolarità tra cultura alta e divulgazione accessibile.
Grosso modo sono tre i periodi attraversati, salvo «un finale in dissolvenza» che non risparmia lapidari giudizi sui nostri giorni. Il primo – dalla faticata e mai raggiunta unità alla vigilia delle avventure coloniali e del conflitto mondiale deflagrato nel 1914 – si concretizza in un continuo scontro tra un’esigente statualità laico-liberale e l’accanita volontà della Chiesa cattolica di preservare il dominio accumulato nei secoli. Il motore ideologico ha sede a Napoli e ha per protagonista Benedetto Croce, uno dei due consoli di un idealismo diversamente declinato.
L’altro è il palermitano Giovanni Gentile, che assumerà la guida del Ministero della pubblica istruzione, già affidato a Croce, e varerà nel 1923 – capo del governo Mussolini – una riforma sistematica destinata a durare a lungo. Il fine dichiarato era fare della scuola lo spazio formativo della classe dirigente borghese e al contempo proseguire nell’insufficiente lotta contro l’analfabetismo. Il libro di Isnenghi alterna puntuali analisi di fondo con distese narrazioni su casi emblematici. Indubbia l’influenza della mappa squadernata da Carlo Dionisotti nella sua cruciale Geografia e storia della letteratura italiana (1967): una prospettiva che sconvolge e sostituisce l’evolutiva e finalistica sistemazione desanctisiana.
Spicca subito l’emblematica vicenda della toscana Italia Donati (1863-1886), una delle tante maestrine che raggiunsero un ruolo eminente. Conquista che si rovesciava talvolta in insidiose malignità a sfondo sessuale. Nei suoi confronti, nel paesino di Cintolese, furono talmente feroci da indurla al suicidio. Al fratello scrisse del funerale che desiderava: «Non voglio ragazze ad accompagnarmi, ma soli quattro incappati e bambini e bambine compresi i miei scolari».
Lungo il viaggio si registrano atmosfere e costumi, i differenti intrecci tra scuola e società, tra insegnamenti impartiti nelle aule e consolidata mentalità popolare. Se si dovesse sintetizzare in indicative categorie il succo delle lezioni ascoltate sarebbe forse lecito impiegare per i periodi abbozzati, anche quindi per gli anni del fascismo e per il movimentato dopoguerra, la propensione (con varianti) per uno storicismo (giustificazionista) di marca hegeliana e per un fiducioso provvidenzialismo di ascendenza guelfa.
Modelli, momenti, autori compongono un saggio che non disdegna narrazione e incisi. Edmondo De Amicis sceneggiò in Cuore (1886) un’Italia corporativa e interclassista al suo difficoltoso sorgere. E Matilde Serao nel coevo Scuola Normale Femminile ritrasse un mondo sorretto da un «civismo clerico-patriottico» declamato nell’inno dell’Istituto: «Son tre raggi in una fiamma / Che ci scalda e cuore e mente, / io cristiana e figlia ardente / Cittadina ognor vivrò». A Lucca, a un tavolo dello sgargiante Caffè Caselli, il romagnolo Manara Valgimigli, famoso grecista, poteva conversare con Giovanni Pascoli e Giacomo Puccini: in una cittadina bianca per eccellenza il professor Giulio Salvadori si permetteva di replicare ai benpensanti che era assurdo adottare manuali concepiti dai nemici della patria: «Le nostre Scuole sono italiane, non clericali; rispettiamo chi crede diversamente da noi, ma non siamo con loro».
A Bologna fa da padrone Giosue Carducci, nelle sacerdotali vesti di un poeta-vate pronto ad accompagnare l’Italia in ardite strategie belliche. Poi tocca a Torino svolgere la missione che era sorta a Napoli, la città di Piero Gobetti e Antonio Gramsci, liberale e operaia, con il mitico Liceo D’Azeglio dove il profe Augusto Monti ebbe allievi Norberto Bobbio, Cesare Pavese, Massimo Mila, Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Michele Giua. Quanto alle impostazioni scolastiche non si dimenticava il culto del nudo documento, ma con l’altro grande De Sanctis (Gaetano) si era consapevoli che per farne storia era indispensabile «portarvi ciò che esso non ci dà: spirito e vita».
Gaetano De Sanctis fu uno dei professori che si rifiutarono, nell’ottobre 1931, di giurare fedeltà al fascismo. Su un migliaio furono appena 12 a compiere il gesto ribelle e val la pena elencarli tutti: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. Molti dei firmatari – tra i quali Norberto Bobbio e Giorgio La Pira – spiegarono l’atto degradandolo a rituale passaggio burocratico. Resta una macchia dell’intellighenzia universitaria. Pensiamo a cosa sarebbe successo se qualche centinaio di docenti avesse avuto il coraggio di astenersi.
Discorso a parte merita la Scuola Normale di Pisa. Giovanni Gentile ne fu il sesto direttore, dal 1928 al 1943. Teorico sommo del Fascismo quale compiuta dottrin,a è stato oggetto di contrastanti giudizi e di diatribe interminabili. Isnenghi ne ricostruisce da storico un ritratto in bianco e nero che non si presta a sintesi sbrigative. La Normale non fu quell’oasi di liberalità che si tende a propagandare, ma la cospirazione antifascista, magari astutamente nicodemitica, ebbe in essa uno dei focolai più attivi. Nelle commosse pagine memoriali che le sono state dedicate i toni si alternano. Si scorrano i tre casi selezionati dall’autore: Gentile, Luigi Russo (1892-1961) e il fucino allievo cattolico Vittore Branca (1913-2004), seguace di Giovanni Battista Montini. Non è credo soltanto segno di affetto personale quanto si riconosce a personalità che non mossero riserva alcuna al totalitarismo del regime. Sebastiano Timpanaro, commemorando Pasquali, sottoscrisse la parole di Attilio Momigliano: «Pasquali era fuori dal Fascismo» e dall’uso volgare che faceva della romanità: «Rimase greco».
Delio Cantimori non aveva un cuor di leone: Alessandro Natta, normalista dal 1936 al 1940, ha scritto con franchezza (1955): «io sono stato legatissimo a Cantimori, sono stato vicino a lui per un anno, ma non sono mai riuscito a farmi dire che non solo era antifascista, ma anche era comunista». Pure il 1938, l’anno delle leggi razziali, non assisté a pubbliche prese di posizione avverse. Dopo l’esecuzione gappista di Gentile (15 aprile 1944) evocò il filosofo con disarmata semplicità: «la Normale è stata la sua innocenza». L’impetuoso Luigi Russo succedette a Gentile per un breve stacco nel ’43 e tenne la carica di direttore dal ’44 al ’48. Non esitò a schierarsi con il Fronte popolare, a farsi sodale di Togliatti, fiancheggiatore dei comunisti. Al suo posto il ministro Guido Gonella chiamò lo spaesato biologo Ettore Remotti, che nel discorso di insediamento (23 novembre 1948) si lanciò in un retorico appello alla riconciliazione nel segno dell’amore: «La relatività delle nostre conoscenze, le incompatibilità dei nostri istinti ci dividono; l’amore solo ci unisce».
A conclusione del suo viaggio, Mario Isnenghi dà un rapido sguardo al panorama dello smemorato e indulgente dopoguerra, terzo tempo della sua imponente ricerca. Lo preoccupano la mostruosa impalcatura burocratica che opprime la scuola. Lo colpiscono parecchi abbagli occorsi a chi dovrebbe battersi per radicali innovazioni, qua e là disordinatamente promosse. Non risparmia staffilate. La Lettera a una professoressa (1967) del generoso don Lorenzo Milani, ad esempio, persegue una ribellione in odore di misoginia e sfocia in un modello competitivo e rigido di affannosa scuola nozionistica. Malgrado le intenzioni, sa davvero di restaurazione.