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 2025  marzo 30 Domenica calendario

Gombrowicz, eroe di se stesso, sotto il segno dell’assenza

Quando Witold Gombrowicz cominciò  a scrivere, e a pubblicare a puntate sulla rivista dell’emigrazione polacca «Kultura», il suo Diario (ora riedito dal Saggiatore nella storica traduzione di Vera Verdiani per la cura di Francesco Maria Cataluccio, pp. 920, € 57,00) si trovava in una situazione esistenziale complessa. Ormai da otto anni viveva in Argentina e gli unici frutti letterari di quell’esilio erano stati la traduzione spagnola di Ferdydurke e il dramma Il matrimonio, pubblicato in spagnolo come El casamiento. L’autore delle Memorie del periodo dell’immaturità avvertiva impellente il bisogno di rilanciare la propria immagine, conferendole una dimensione possibilmente «universale», nella convinzione che uno scrittore debba «fingere di essere tale per poterlo finalmente diventare».
Proprio al Diario, forma che prediligeva –  «La tana della vita altrui, per quanto abbellita o mistificata, non manca mai di affascinarmi» – affidò questo processo di autocreazione, che gli avrebbe consentito, fra l’altro, di fare i conti con un’inesauribile schiera di nemici, reali o immaginari: la «forma polacca», i compatrioti emigrati, le loro riviste, in primis «Wiadomosci literackie», pubblicata a Londra, ma anche i poeti (tutti!), i pittori (tutti!), i critici letterari (con significative eccezioni), il comunismo, la scienza.
Chi legga ora il Diario, pubblicato per la prima volta in un’edizione unica (era divisa nelle due grandi fasi 1953-58, 1959-1969) può cogliere la figura autoriale di Gombrowicz rifratta in molteplici ipostasi che si succedono senza soluzione di continuità. Nella sua insistenza a descriversi come un nobilotto di campagna disdegnoso del compromesso, sembra  coscientemente modellarsi sulla figura dell’hidalgo: don Chisciotte, ma ancora di più quella del suo autore, Cervantes, impegnato a regolare i conti con i cattivi romanzi cavallereschi dell’epoca. In seguito, il posto del cavaliere errante sarebbe stato preso da Amleto. Ma il vero eroe di questa intricata e sofferta autoconfessione intellettuale è l’ego dell’autore: «Lunedì: io. Martedì: io. Mercoledì: io. Giovedì: io». Che non si tratti soltanto di scontato egocentrismo lo spiega con ammirevole chiarezza lo stesso «Witoldo»: «non riesco a vedere il mondo che dalla mia prospettiva personale».
Nella spassionata celebrazione di questa soggettività, l’autore del Diario individua la tradizione più nobile del pensiero filosofico occidentale, una linea che da Platone, passando per Agostino di Ippona e Cartesio, approda all’idealismo tedesco e alla fenomenologia di Husserl, per trovare la sua definitiva consacrazione nell’esistenzialismo sartriano.
Sebbene ostile a ogni forma di teorizzazione letteraria, incluso lo strutturalismo, Gombrowicz sembra (volutamente? à rebours?) ricalcare i procedimenti dello «straniamento» formalista: «Accettiamo senza fastidio un attempato tenore nella parte di Sigfrido, degli affreschi quasi invisibili, una Venere senza naso e una vecchia signora che recita giovani poesie». Da una parte, quindi, la sua sensibilità esasperata per il carattere convenzionale della rappresentazione artistica, dall’altra la vagheggiata «immaturità» culturale degli slavi, anzitutto dei polacchi – «l’immaturità polacca determina tutto il mio atteggiamento verso la cultura» –  che in fin dei conti non gli sembravano aver mai dato troppa importanza all’arte: «abbiamo sempre pensato che la tabacchiera fosse fatta per il naso, e non il naso per la tabacchiera». Era questo ad averli posti al riparo dall’idolatria della forma?
Sebbene riconosciuta quale carattere nazionale, l’immaturità deve essere coltivata in una dimensione universale – sostiene il diarista – a partire dal dato effettivo dello sradicamento: «Non siamo mai stati felici nel nostro paese. I suoi pini, i suoi salici, le sue betulle erano alberi come tutti gli altri, e vi facevano sbadigliare (…) quando, annoiati, li guardavate ogni mattina dalla finestra». D’altra parte, la rinascita di un sé privo di condizionamenti  culturali, religiosi, etnici, filosofici (la forma!) appare tanto più possibile se tentata in un paese «sazio di gioventù» come l’Argentina, terra dove la bellezza – laica e priva della grazia – si esprime come trionfo della materia, e dove sembrerebbe possibile un’umanità senza feticci. Tanto maggiore, dunque, la frustrazione dello scrittore polacco alle prese con i suoi colleghi latinoamericani genuflessi al cospetto della cultura europea e delle numerose cause collettive (i nativi, la hispanidad, il comunismo, il cattolicesimo), in cui ravvisava il principale impedimento a esprimere la propria peculiarità artistica. Insieme alla tenace fede nella disuguaglianza spirituale degli esseri umani, il suo individualismo sarebbe costato a Gombrowicz poco larvate accuse di fascismo.
Il Diario riguarda soprattutto il suo sé scrittore, costellato com’è di fulgide epifanie narrative, per esempio quelle che punteggiano la navigazione sul Paranà, dove si percepiscono atmosfere di ispirazione conradiana. Capita che l’autore, metaletterario emulo di Lord Jim o del Marlowe di Cuore di tenebra («Distesa impotente, fiume pigro, aria ferma, la bandiera penzola afflosciata»), si risvegli «con la terribile sensazione che fosse accaduto qualcosa … al di fuori di me … fuori dal mio controllo». Le più originali tra le epifanie fabulari di Gombrowicz sono quelle poste sotto il segno dell’assenza: «mi sono trovato davanti un albero. Sergio, che mi accompagnava, ci è salito sopra. Gli ho chiesto se poteva inventarsi qualcosa di più originale. Invece di rispondere si è arrampicato, ma mi è parso che stavolta lo facesse senza l’albero».
Nelle sue antiepifanie il critico Ryszard Nycz ha intravisto una forma di esperienza dell’instabilità ontologica della realtà, nonché il segno dell’antifondamentalismo di Gombrowicz. Ma il suo Sommo Antagonista è Dante Alighieri: «Spiegaci, oh pellegrino, come fare a raggiungerti!» si angoscia l’autore del Diario, incapace di afferrare la natura della Divina Commedia, incerto se sia «un’opera maldestra del piccolo Dante? Un’opera possente del grande Dante? Un’opera mostruosa dell’ignobile Dante?» Gombrowicz sembra mancare la vera questione, ossia che dietro il poema possano celarsi una volontà di rivalsa politica, un atto di assertività dell’esiliato molto simili ai quelli che lui stesso riversava nel suo Diario, nei cui gironi infernali aveva collocato vari e ormai dimenticati confratelli di penna polacchi. O forse ne era perfettamente consapevole.