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 2025  marzo 30 Domenica calendario

Intervista a Isabella Ferrari

«Eravamo belli e giovani, ma non lo sapevamo». L’esclamazione gronda nostalgia, ma Isabella Ferrari ha imparato da tempo ad aggirare le trappole legate allo scorrere degli anni. La vita le ha insegnato che le cose importanti sono altre, ha sconfitto una malattia rara e grave, ha attraversato periodi in cui sembrava che la sua stella stesse per tramontare, ha reagito, ha ricominciato, ha vissuto la sua rivincita lavorando per due volte con il premio Oscar Paolo Sorrentino e può vantare, nella sua filmografia, un titolo come Amatemi, regalo innamorato del consorte Renato De Maria, girato 20 anni fa, e appena ripresentato al Bif&st che si è chiuso ieri: «Era una fase in cui il mio livello di autostima si era molto abbassato, l’avevo quasi persa».
Adesso come sta?
«C’è stata un’epoca in cui ho lavorato meno, circa dieci anni fa non mi arrivavano più offerte, per un attore è complicato, si vive sempre in attesa della prossima parte… forse ero cambiata, forse ero invecchiata, non ero più la donna seduttiva di certe storie. Poi, negli ultimi anni, la situazione è mutata di nuovo, i ruoli sono arrivati, magari piccoli, perché, non c’è niente da fare, noi donne in questo cinema dobbiamo sempre fare i conti con l’età».
Personaggi piccoli, ma importanti, come è successo con Paolo Sorrentino.
«Sì, con lui si è creato un sodalizio artistico, non mi sorprenderebbe se facessimo un altro film insieme. Le mie scene nei suoi film sono iconiche. Certo, in Parthenope sono mascherata, e questo mi ha escluso da qualunque candidatura ai premi, un peccato perché, con maschera o senza, un attore resta tale, e, in più, deve recitare usando solo la voce. Credo sia stata una scelta della produzione finalizzata a non disperdere i voti, ma non voglio alimentare nessuna polemica…».

Ha superato fasi complesse, che cosa le hanno lasciato?
«Una crescita personale, di cui fanno parte tutti i vari pezzi dell’esistenza. Lo si capisce dopo, a 20 anni mi faceva soffrire quasi tutto, adesso vado avanti con una sorta di distacco da me stessa, ho una famiglia numerosa, tante amiche, i figli, il cinema, gli altri. Non mi piace isolarmi, sono molto curiosa e mi interrogo sempre su quello che succederà domani. Ne ho vissute tante, ma non più di molte altre persone».
La sua immagine di attrice è sempre stata parecchio sessualizzata. Le è pesato ?
«Ho cercato di staccarmene, facendo altro. E ci sono sempre riuscita, interpretando film o serie tv che mi allontanavano da quel tipo di rappresentazione. Per esempio in Distretto di polizia avevo un ruolo bellissimo, ma dopo due stagioni me lo sono sentito stretto, certo, se avessi continuato mi sarei arricchita, ma a quel punto avevo di nuovo voglia di un’altra pelle. Cambiare è stata la chiave di volta delle mie scelte».
Perché si era stancata?
«Il mio personaggio era talmente popolare che non mi facevano neanche più fare i controlli all’aeroporto, passavo e mi salutavano “Commissario”, ma io non volevo diventare il commissario d’Italia
, anche se mi sono divertita tanto e ho lavorato con attori stupendi. Magari un altro anno avrei potuto pure farlo».
Quali sono gli incontri professionali più importanti?
«Tanti. Anche quelli sbagliati, posso dire di essere abbastanza contenta di ciò che ho fatto finora. Di sicuro mi ha segnato quello con Ettore Scola, ricordo ancora quando, sul set di Romanzo di un giovane povero, prima che iniziassi a recitare un lungo monologo che mi spaventava molto, mi mise una mano sulla spalla dicendo “parti da te stessa, pensa a tua madre”. Per quel film ho vinto la Coppa Volpi a Venezia. Scola era un signore del cinema. E lo è stato anche Dino Risi, anche se sul set mi sgridava in un modo tremendo…».
Cioè?
«Urlava con il megafono “sei la più cagna” e poi, un attimo dopo, “sei la più bella”
. Il film era Dagobert. Tornavo a casa e soffrivo un sacco, però quelli sono stati incontri stimolanti, soprattutto se li paragoniamo ai nostri giorni, ai set in cui bisogna stare attenti a tutto quello che si dice, in cui si gira con l’”intimacy coordinator”. Se ripenso a quel passato mi sento una sopravvissuta, e anche molto bene».
A proposito di comportamenti sui set, qualche giorno fa Fanny Ardant ha difeso il suo amico Gerard Depardieu processato per molestie. Che impressione le ha fatto?
«La prima cosa che mi viene da dire è che noi italiane tendiamo a non esporci su questo fronte, né in un modo né nell’altro. Dopo le rivelazioni di Asia Argento, che riguardavano comunque una situazione americana, mi è sembrato che da noi facessero tutti una corsa a sparire. In Francia, invece, le attrici accusano, difendono, prendono posizione, così come fece a suo tempo Catherine Deneuve proprio sul MeToo».
Qualcuno, dopo la deposizione di Ardant, ha detto che il MeToo è morto, lei che dice?
«Il MeToo è una pagina di storia necessaria e importante. Capisco Ardant, che ha un rapporto stupendo con Depardieu, però io credo soprattutto alle donne che lo accusano
. Per decidere di fare un passo del genere le donne ci impiegano sempre tantissimo tempo. Accusare è una cosa talmente dolorosa, complicata, con tutti i retaggi che comporta, che, se si fa quel passo, anche a distanza di tanto tempo dai fatti, vuol dire che si hanno ragioni per farlo».
Qual è il suo prossimo impegno?
«Per la prima volta giro un film con Pupi Avati, insieme a Sergio Castellitto. Non lo conoscevo, quando l’ho incontrato mi è sembrato di parlare con un ragazzo del cinema, mi incuriosisce molto».