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 2025  marzo 30 Domenica calendario

La trappola della lingua nello Studio Ovale

Lo scontro verbale fra Trump e Zelensky è stato nei giorni scorsi oggetto di lucide analisi e approfondite disamine politiche che certamente pesano e peseranno negli equilibri futuri sulla guerra in corso. C’è, però, un aspetto solo apparentemente secondario che merita forse qualche parola in più. E che, forse, non è poi così secondario.
Chi traduce per mestiere – e quasi sempre anche per passione – sa bene che parlando lingue diverse ci si capisce meglio. Può sembrare un paradosso ma non è affatto così, né nel parlato né nello scritto. Una lingua non è soltanto un insieme di parole e regole grammaticali: è anche, forse soprattutto, un insieme di codici complessi che coinvolgono il corpo, la mente, il cuore, la fantasia e tanto altro. Una lingua è anche il tessuto della nostra materia cerebrale, e non soltanto un seppure complesso sistema di comunicazione. Parlandosi fra loro con la mediazione di chi ha competenza, esperienza e sensibilità, due lingue interagiscono costruendo una rete di tesi e sottintesi, e soprattutto si completano a vicenda. Tradurre, interpretare, significa immancabilmente estrarre qualcosa di nuovo e inedito tanto dalla lingua di arrivo quanto da quella di partenza.
Zelensky ha scelto di parlare «faccia a faccia» con Trump usando la lingua madre di quest’ultimo. Con ciò si è posto automaticamente in una posizione di debolezza – linguistica, psicologica e politica. La «padronanza» di una lingua è controllo, ascolto, capacità di intendere i significati palesi e quelli nascosti nel sottotesto, di saggiare la dinamica fra gesti e discorso, fra espressioni del viso ed espressione in senso stretto: delle parole, delle frasi, di quella punteggiatura che nel discorso diretto, cioè parlato, sono implicite ma non meno importanti che nel testo scritto. Un interprete professionista sarebbe stato non un intralcio, ma il contrario. Avrebbe dato un ritmo diverso allo scambio di battute, e di «battiti» della frase. Avrebbe saputo intendere i significati espliciti e quelli sottintesi, avrebbe usato il tono e le parole giuste. Avrebbe, insomma, dato ai due uomini politici modo di comunicare veramente e non, come è effettivamente successo, su due piani diversi. Due piani diversi innanzitutto di conoscenza della lingua – straniera per l’uno, materna per l’altro. E anche di controllo del discorso, delle conseguenze che una parola, una frase, un punto esclamativo portano inevitabilmente con sé, quando ci si parla.
Convinto che la sua scelta di usare la lingua dell’altro fosse una dimostrazione di «presenza» politica e vigilanza della situazione, Zelensky è caduto in una trappola implacabile, si è ingarbugliato in un inglese in cui ha potuto dire molto meno e molto peggio di quanto avrebbe detto usando la sua lingua madre: quella di cui è fatta la sua vita, così come per ognuno di noi. Ha forse pensato che l’assenza di un interprete avrebbe semplificato le cose e gli avrebbe permesso di dire le cose come stanno, di essere più incisivo e convincente. Invece è successo esattamente il contrario, come era prevedibile per chiunque abbia a che fare con il mestiere di far comunicare lingue diverse, di traghettare significati, istanze, passioni, ardori, convinzioni da una lingua a un’altra.