la Repubblica, 30 marzo 2025
La terza guerra
Se vogliamo battezzare il secolo dal suo inizio, dobbiamo parlare della grande occasione perduta: dopo la fine dei totalitarismi invece di mettere a profitto la libertà e la pacifica convivenza il mondo è entrato in una fase di turbolenza, con il ritorno della guerra sul terreno, in Ucraina e in Medio Oriente, le due aree da cui nasce l’insicurezza in cui viviamo e la nuova paura del presente.
Ma gli storici di domani, guardando indietro, diranno che in realtà la nostra epoca ha conosciuto una terza guerra, tutta ideologica, capace di sconvolgere gli equilibri mondiali e di cancellare ogni certezza per il futuro: è il conflitto appena scoppiato tra i leader neo-autoritari e la liberal-democrazia, messa sotto accusa perché improduttiva e rifiutata perché restrittiva, con la sua coscienza del limite che attraverso controlli e regole impedisce al potere legittimo di esprimere tutta la potenza sfolgorante della sua sovranità suprema, realizzando il mandato popolare.
Questa guerra è già mondiale, chiude un’epoca, sovverte l’ordinamento, rovescia la storia e cancella la tradizione, ribalta equilibri e alleanze: e determina l’esito dei due conflitti che si trascinano sul campo, e non sanno finire.
Proprio questa capacità di incidere sul piano materiale incandescente degli scontri armati, proponendo un percorso d’uscita, e contemporaneamente di agire sul piano concettuale della teoria politica e del codice morale, azzerando ideali e valori, trasforma la battaglia contro la democrazia liberale nel nuovo principio ordinatore del pianeta.
Denunciare la pratica democratica significa infatti rifiutare il metodo, la norma e il criterio che hanno fin qui governato la nostra vita dando un codice alla coesistenza. Improvvisamente, siamo senza regole del gioco. Il nuovo modello s’inventa strada facendo, la convenienza lo improvvisa, la forza lo realizza, il potere lo impone. L’importante, per la politica e per la storia, è la frattura con il passato: al sovrano neo-autoritario non basta il favore elettorale che gli ha consegnato il governo, secondo la prassi del vecchio mondo; vuole il comando e per ottenerlo sceglie di fuoruscire dall’ordinamento disconoscendolo, con una rottura di sistema, di consuetudine e naturalmente di linguaggio e d’immagine, cioè culturale.
L’autocrate nasce dentro la regola democratica, con libere elezioni, e subito se ne separa allontanandosi, perché dal momento in cui prende il potere è lui la regola e tutto deve subordinarsi in una gerarchia sovrana che non conosce vincoli e non accetta freni. Prende così forma una sovranità de-costituzionalizzata che non può più costringersi nei confini dello Stato di diritto ma deborda oltre la norma, al di là della separazione dei poteri, fuori dall’equilibrio istituzionale. Il guscio del sistema è all’apparenza intatto, con la competizione tra i partiti, la libertà della contesa elettorale, il trasferimento di potestà tra il cittadino e l’eletto: ma all’interno la sostanza democratica si corrompe, degrada e inevitabilmente decade. È quanto stiamo vivendo giorno dopo giorno, con gli Stati Uniti d’America che si sono messi alla testa di questo conflitto con la democrazia liberale, raccogliendo e legittimando tutte le pulsioni neo-autoritarie che affiorano nei diversi Paesi e organizzandole in un disegno rivoluzionario e reazionario, che cancella ogni responsabilità pregressa, fino a scambiare gli amici con i nemici.
Com’è possibile che l’insidia di questa sfida radicale non sia al primo posto sull’agenda delle cancellerie d’Occidente, non domini il dibattito politico, non renda i cittadini consapevoli del rischio di cambiare sistema, rinunciando a tutte le garanzie che la procedura liberal-democratica hamesso in campo negli anni? La questione riguarda tutti, supera la distinzione tra destra e sinistra, chiede ai cittadini di difendere se stessi difendendo la civiltà democratica che è la forma stessa della cultura occidentale tradotta in politica, istituzioni, diritti: la democrazia di uso quotidiano. Invece restiamo in silenzio davanti all’abuso, giustificando il sopruso. Vediamo la violenza dell’onnipotenza dispiegata contro gli interlocutori che resistono aldiktat imperiale, assistiamo all’umiliazione inflitta al soggetto più debole come preambolo del negoziato finale, sperimentiamo l’elogio del più forte, non importa se aggressore.
Sembra che la difesa della democrazia non sia a carico di nessuno: chi ha criticato gli eccessi del “politicamente corretto” tace davanti alla dismisura del “politicamente infame” che applaude ai neo-nazisti, insulta gli alleati, prende ciò che vuole e vuole tutto ciò che gli serve, in una rapina di Stato. Man mano che s’inseguono – uno al giorno – gli annunci di misure governative per correggere la democrazia o per sovvertire le regole, s’abbassa la capacità di reazione nel corpo sociale, derubricando l’anomalia: invece di opporci all’involuzione neo-autoritaria denunciandola, modifichiamo la nostra soglia di assuefazione, adattandola al presunto spirito dei tempi. Quanto alla classe dirigente, si è già consegnata al nuovo potere, rivelando di non avere autonomia, né coscienza della democrazia, dunque nemmeno autorità per difendere i valori della libertà sotto minaccia.
È evidente, per chi guarda la realtà, che anche la guerra, la tregua, la trattativa entrano in questa battaglia del neo-autoritarismo contro la liberal-democrazia. Gli autocrati si muovono in una logica imperiale, hanno bisogno del terreno sgombro per definire lo scambio d’interessi e d’influenza con le altre superpotenze, garantendosi a vicenda e assicurandosi la supremazia su tutti gli altri soggetti. In questa logica sono interessati a un negoziato per far finire il conflitto esattamente nel punto dov’è arrivata la forza dell’Impero. Il negoziato, dunque, è un dispositivo per la creazione del nuovo ordine mondiale: e la pace viene usata come se fosse uno strumento dell’altra guerra, il conflitto tra la reazione e la democrazia.
Ecco perché bisogna insistere nell’invocare una pace giusta. L’Italia è pronta a farlo? Giorgia Meloni ha ragione quando dice che non bisogna rompere il ponte con gli Stati Uniti: ma per arrivare dove? La premier ha scelto di stare con Trump: ma nello scontro tra Trump e la democrazia liberale con cui siamo cresciuti nella libertà, da che parte starà l’Italia? Il tempo dell’ambiguità sta finendo.