Robinson, 30 marzo 2025
Intervista a Edoardo Quarantelli
Ricordo che da adolescente circolava in casa una copia de Il mistero delle cattedrali di Fulcanelli. Non che mio padre avesse propensioni alchemiche, ma quel libro era stato probabilmente dimenticato da un lontano parente che si era poi trasferito all’estero. La prima volta che lo sfogliai – ho memoria di una copertina bianco avorio – fui attratto dalle copiose immagini di chiara derivazione gotica e dai simboli che corredavano e integravano le spiegazioni dal tono enigmatico con cui Fulcanelli dispiegava il proprio sapere. Mi è tornato in mente quel lontano dettaglio dopo la visita nella più sorprendente delle librerie romane, un luogo che ha lasciato un segno nel campo delle conoscenze quali astrologia, alchimia, massoneria, storie delle religioni, esoterismo e molto altro. Scienze dell’impalpabile dove non è facile distinguere la paccottiglia dal serio, le teorie del complotto da quelle ermetiche. La libreria si chiama Aseq, un acronimo delle iniziali dei due fondatori: Stefano Andreani e Edoardo Quarantelli. Fu aperta mezzo secolo fa dalle parti del Pantheon; da vent’anni ha traslocato nella nuova sede vicina a Sant’Ivo alla Sapienza. Da qualche tempo Quarantelli, ormai ottantacinquenne, ha ceduto la libreria a una nuova proprietà. Con lui, che ancora pratica l’arte della spada, vorrei raccontarvi cosa è stato quel mondo e cosa significa un’opera di resistenza culturale.
Vado a trovarlo a casa, nel quartiere Monti dove vive con la compagna Marina Bornoroni che alla storia di Aseq ha dedicato qualche anno fa un piccolo libro di memorie e risonanze (come recita il sottotitolo). Apprendo che in persiano aseq vuol dire “innamorato del divino”.
«Dopotutto» mi dice Quarantelli «cosa c’è di più rispondente a quell’affermazione compromessa oggi dalle mille insidie della modernità?».
Lei è contro la modernità?
«Sono contro gli eccessi. Ma la modernità non può che essere eccesso, e allora sì sono contro. La libreria che fondammo nel 1976 ebbe questa ragion d’essere: creare uno spazio dove il sacro potesse rifugiarsi. Non avevamo nessuna esperienza libraria. Trovammo il locale vicino a Sant’Eustachio e ci mettemmo dentro i nostri libri. Non sapevamo ancora che gli dei del Pantheon ci avrebbero chiesto asilo».
Erano gli anni Settanta, la cultura muoveva in tutt’altra direzione.
«Erano anni di furori ideologici e di violenza politica. Quell’atmosfera ci rese invisibili, e in un certo senso unici. Tra i primi a frequentarci ci fu Elémire Zolla».
Del sacro si intendeva.
«Non smetterò di essergli grato per la sua dottrina. Altero e solenne, sostava silenzioso davanti agli scaffali. In particolare a quelli dedicati all’alchimia e all’Oriente. Avevamo riservato uno spazio alla sua rivista Conoscenza religiosa. Ne era visibilmente soddisfatto. Lo sentii una volta commentare con sarcasmo il Libretto rosso di Mao e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, scadenti prodotti della cultura dominante, li definì».
Era un uomo della tradizione.
«Aveva sprovincializzato il sacro e non c’era aspetto delle culture del passato che non gli fosse noto. Mi riferirono però di un’aspra battuta della sua compagna Cristina Campo: tu becchetti come una gallina nell’aia. Intese così rimproverarlo per i troppi interessi che rischiavano di dissiparne l’intelligenza».
Venne mai la Campo in libreria?
«Non l’ho mai vista. Quando aprimmo era già malata e morì l’anno dopo, nel 1977. Ricordo però che Zolla ci chiese se eravamo interessati ai suoi libri. Andai a vederli. Molti avevano dediche a lei, appartenevano al suo privato. Non ritenni giusto metterli in commercio».
Quando si è avvicinato ai libri?
«Dalla tarda adolescenza. Mi hanno formato i romanzi russi e il disinteresse per la scuola, per quei professori anziani fuori e vecchissimi dentro. Una scoperta notevole fu la lettura di Psicologia e alchimia di Jung, nell’edizione Ubaldini e nella traduzione di Roberto Bazlen. Capii ben poco. Faticosamente entrai dentro quel mondo popolato di archetipi e di simboli antichi. Mi affascinava e mi sorprendeva l’accostamento della pratica alchemica a quella analitica. Successivamente, grazie alla conoscenza del tedesco, lessi un tardo scritto sul Mysterium coniunctionis, nel quale Jung concludeva le sue complesse ricerche sull’alchimia».
Come aveva imparato il tedesco?
«Nel 1957 viaggiai per l’Europa in autostop e mi fermai per un po’ in un campo di lavoro a Lüneburg, nella Bassa Sassonia. Tornai in Germania negli anni Sessanta e vi sono rimasto per quasi un decennio. Ero lì nel 1961 quando costruirono il Muro. Lavoravo come interprete per gli operai italiani. Un anno giunsero in 600 mila.
Dimentichiamo che siamo stati un paese di emigranti».
Incontri interessanti?
«Non che avessi molto tempo. Frequentai per un po’ a Monaco, tramite il suo amante, Rainer Werner Fassbinder. Allora si occupava soprattutto di teatro e nel cinema aveva all’attivo qualche cortometraggio. Conobbi, sempre a Monaco, Pier Paolo Pasolini. La Piper Verlag aveva acquistato i diritti di Una vita violenta. Era il 1962. Un pomeriggio con il traduttore Gur Bland, e me presente, Pasolini discusse la resa in tedesco di certi termini. Per esempio come tradurre “morto di fame”. Non era semplice arrivare a una resa efficace. Alla fine se ne uscì con una frase che ci lasciò sconcertati. Disse che sarebbe morto come Winckelmann».
Il grande archeologo e storico dell’arte.
«Fu un cuoco toscano, con i trascorsi di una vita balorda e violenta, a ferire a morte Winckelmann a coltellate in un albergo triestino, dopo alcune notti insieme».
Crede alle premonizioni?
«Penso che in Pasolini ci fosse la sensibilità a volte tragica dell’artista. Tutto quello che riteniamo medianico va trattato con cautela. Personaggi medianici di consolidata fama sono esistiti, ma attorno ad essi si è creato un interesse morboso che alimenta il sottobosco della cialtroneria. Gustavo Adolfo Rol, nonostante le sue capacità paranormali fossero amplissime, non amava essere definito medium o sensitivo. Riteneva di poter operare su piani spirituali superiori. E questo spiegava la sua discrezione».
Cosa intende per “piani spirituali superiori”?
«Sono le complicate strade della conoscenza che non devono per forza condurre esclusivamente al controllo e alla spiegazione del visibile. Anche le scienze cosiddette classiche stanno cambiando schema di pensiero. La fisica quantistica apre a misteriosi intrecci che non hanno niente a che vedere con la fisica meccanica. La probabilità ha preso il posto della necessità e ogni variabile sfugge al rigido rapporto di causa effetto».
Il rischio che tutto questo diventi un pastrocchio lo
vede?
«Certo, bisogna guardarsi dai fanatismi e dai fraintendimenti».
Ossia?
«Bisogna essere consapevoli che avventurarsi, per esempio, nell’esoterismo significa intraprendere un viaggio incerto e imprevedibile. Imbattersi in profondità segrete e in banali superficialità.
L’antroposofia di Rudolf Steiner è una cosa seria. La sua influenza su vari campi del sapere – medicina, pedagogia, arte e perfino edilizia – ne fecero un protagonista del ventesimo secolo. Non sempre si può dire la stessa cosa degli steineriani».
Il destino dei maestri traditi.
«Un maestro è solo un maestro di passaggio. In vita sarà sempre a metà della strada. Puoi proseguirla o rinunciare andando altrove. Non è tradimento, è libertà. Spesso non conosciamo il perché di un certo gesto che, in rari casi, corrisponde all’illuminazione.
Jakob Böhme prima di essere mistico e alchimista fu un povero calzolaio. La sua fu la svolta di un illuminato. Come è accaduto? Mi viene in mente una frase dei Vangeli ripresa da Kierkegaard: “Guardate gli uccelli nel cielo, osservate i gigli nei campi”. Da essi bisogna apprendere il silenzio».
Tutto questo ci arriva soprattutto dalle filosofie orientali. Non ritiene che l’Occidente abbia accolto gli aspetti più folcloristici?
«C’è del vero ma contesterei l’idea che l’Occidente non abbia avuto una sua autonoma elaborazione, acominciare dal pensiero presocratico su cui Giorgio Colli ha svolto considerazioni fondamentali. Per non parlare della grande mistica medievale e del pensiero ereticale che tra il Quattro e il Cinquecento scorre come un fiume impetuoso in buona parte dell’Europa cristiana, convergendo sulla figura straordinaria di Giordano Bruno».
Però il Novecento si lascia sedurre dalle culture indiane, cinesi e giapponesi. Le ibrida, spesso e volentieri le scimmiotta.
«Tutto il secolo scorso è un ribollire di esotismi. Le idee hanno la stessa fluidità delle merci e non conoscono confini. Gurdjieff era armeno, visse in Turchia e poi in Francia. Qui, alle porte di Parigi, negli anni Venti stabilì il suo insegnamento. Finì i suoi giorni in America. Il suo pensiero si fondava sulle tecniche dell’auto osservazione ed era aperto a molteplici culture esoteriche attinte dalle comunità monastiche dell’Asia, dalle esperienze sufi, dal cristianesimo e dal buddismo. Immaginò una quarta via in cui tutto questo veniva per così dire rappresentato. Dubito però che il suo insegnamento indefinibile, sospeso in un mondo intermedio, potesse davvero essere integralmente trasmesso».
Eppure la sua fortuna fu notevole.
«Diversi furono i personaggi famosi che provarono a percorrere la “quarta via”, tra questi René Daumal, Katherine Mansfield, Peter Brook. E da noi, Franco Battiato».
Battiato ha frequentato la vostra libreria?
«Per quel che ricordo venne una sola volta. Lo vidi entrare un pomeriggio e fermarsi quasi sull’ingresso dove c’era una zona dedicata al pensiero islamico.
Consultò dei libri, li ripose e uscì. Sembrava non avere curiosità o magari ne aveva troppa».
Ci sono stati altri personaggi che si sono affezionati alla libreria Aseq.
«In cinquant’anni ne ho visti tanti. Ma i due con cui ho stretto dei rapporti sono stati Pierre Pascal che fu segretario di Charles Maurras e il dottor Georg Frederic Martin».
Per quel che ricordo Pascal fu anche molto vicino a Julius Evola.
«Furono entrambi uomini della destra più rigidamente tradizionale ed elitaria».
Diciamo pure fascisti.
«Ebbero una visione aberrante della politica che li portò all’emarginazione. Eppure a Parigi Pascal frequentò René Guénon, Édouard Schuré, Paul Valéry e Léon Daudet. Aveva una conoscenza piena della cultura e della lingua giapponese. Aiutò Mishima a trovare il corrispondente in lingua giapponese per certe parole che D’Annunzio aveva usato nel suo Le Martyre de saint Sébastien che scrisse in francese e pubblicò nel 1911.
Pascal finì i suoi giorni a Roma. Visse in povertà con la moglie svolgendo il lavoro di bibliotecario presso il Collegio Gallico. Era un uomo sprezzante e curioso che trovò nella Aseq forse il suo ultimo rifugio».
Quanto al dottor Martin?
«Non saprei se definirlo più medico o sciamano. Viveva in un isolato casale in Sabina, dove spesso gli recapitavo personalmente dei libri. Era nato a San Pietroburgo, ma durante la rivoluzione del 1917 la sua famiglia si trasferì a Londra e da lì negli Stati Uniti, dove Martin prese la cittadinanza».
Era medico in che senso?
«Era prevalentemente un omeopata dedito alla medicina naturale».
Perché lasciò l’America?
«Credo che non gli corrispondesse spiritualmente.
Girovagò per l’Europa per poi trovare la sua pace in Sabina, nell’alto Lazio. Venne poche volte in libreria, preferiva che fossi io a raggiungerlo nel suo eremo. Per me fu uno spirito libero e compassionevole».
A parte le persone che ha conosciuto che cosa deve alla Aseq?
«Forse aver creato insieme a Stefano Andreani, e poi con Luca Nerazzini, una sorta di circolo Pickwick al contrario».
Nel senso?
«Nessuno di noi ha girovagato per l’Inghilterra, come nel romanzo di Dickens, alla ricerca di personaggi eccentrici. Sono loro che hanno trovato in questo luogo appartato un rifugio al riparo dalla modernità»