Robinson, 30 marzo 2025
Ugo Rondinone “Cara terra mia ora ti scolpisco”
Nella Milano della sala da ballo neoclassica della Galleria d’Arte Moderna di Milano c’è un immenso pannello con più di trecento strumenti per lavorare la terra. Sono pale, picconi, rastrelli, falci, ruote, setacci, forbici, cesoie, e molti altri, tutti coperti da una patina d’oro. Intitolato The Alphabet of My Mothers and Fathers è il tributo di Ugo Rondinone a chi ama e lavora la terra. Nato in Svizzera nel 1964 da genitori di Matera, cresciuto nel piccolo paese di Brunnen, ha vissuto a Vienna e Berlino, e infine dal 1997 a New York. Fra gli artisti internazionali più riconosciuti da musei e gallerie in tutto il mondo, con un studio in un’ex chiesa battista di Harlem, Ugo Rondinone arriva a Milano con la personale Terrone, a cura di Caroline Corbetta (dal 2 aprile al 6 luglio).
Un progetto voluto da Comune di Milano e CSM Cultura, apre in occasione di Milano Art Week insieme a una mostra della Galleria Cardi a Miart. La mostra in Gam ruota intorno al tema della terra come elemento romantico e universale e come luogo di lavoro, identità e orgoglio. La terra, quella dell’uliveto che l’artista ha comprato vicino a Matera in Basilicata e dove ha lavorato su ulivi secolari, e quella raccolta in sette continenti, di colori e grane diverse, per realizzare le sculture di nudi ora adagiate sui pregiati pavimenti del museo. Poetico e politico, alla costante ricerca del sublime, di quella dimensione che conduce sull’orlo dell’abisso per cogliere l’attimo unico e irripetibile della pienezza dell’esistere, Rondinone è anche molto coinvolto da temi contemporanei.
A Milano l’artista delle Seven Magic Mountains, che si stagliano sui giorni abbaglianti e le notti stellate del deserto della California, si riappropria di una parola antica e nobile come “terrone” per disinnescare l’insulto e restituirle il significato originario. Profondi occhi castani, preferisce parlare inglese ma in rari momenti parla in italiano, la lingua madre imparata dalla nonna nelle estati di bambino in Basilicata.
Iniziamo dalla terra.
«Nel 2003 ho acquistato un uliveto vicino a Matera per ricollegarmi alla mia terra, come luogo di origine, radici e identità. Lì gli ulivi secolari distillano un tempo cosmico e universale: danno il senso delle ere geologiche e di quanto siamo connessi con la natura. È questo senso dell’immensità della natura e dell’appartenenza che distillano le mie sculture di ulivi, sono calchi di alberi. In tutto dodici, di cui quattro in mostra a Milano. Dal 2003 a oggi ne ho realizzato uno per ogni mese dell’anno, durante la luna piena. Saranno dodici per sempre, non ne farò altri. Dodici alberi, dodici notti, dodici lune piene».
La luna è un archetipo antico e potente. Lo sono anche gli strumenti della terra?
«Certo, archetipi di molte culture. L’idea di esporli a Milano nasce dalla storia della mia famiglia. A luglio, quando ho visitato la Gam per la prima volta, mi sono trovato di fronte a Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. È stata una sorpresa incredibile che mi ha riportato indietro nel tempo, nella cucina di casa nostra in Svizzera, dove mio padre, comunista, aveva appeso una riproduzione. Quell’immagine per lui e mia madre era il manifesto del proletariato, un simbolo delle sue radici. Vengo da una famiglia della classe lavoratrice, immigrata al nord in cerca di una vita migliore. Con gli strumenti di lavoro degli agricoltori di Long Island, coltivatori di patate, che negli anni Venti erano quasi tutti italiani, racconto una storia dei terra personale e collettiva».
La terra di nuovo. Il titolo della mostra, “Terrone”, in un’epoca di estreme discriminazioni come la nostra è molto forte.
«Questa parola è stata utilizzata per ottant’anni come un insulto, ma in realtà non lo è. Voglio dire, ogni parola ha la sua storia. Questa parola è molto più antica del suo uso improprio: deriva da terra. Da chi lavora e ama la terra e ne trae identità. Non c’è altra parola che possa descrivere con tale profondità di senso questo concetto. Riappropriarsene significa disinnescare l’insulto. E poi per me la terra ha un valore universale: è l’elemento principale della natura e dell’esistenza».
Quando ha iniziato a interessarsi alla natura?
«Ero ancora uno studente a Vienna ed era l’inizio della crisi dell’Aids. Il mio primo ragazzo morì poco dopo, nell’86, e questo mi fece riflettere sulla mia pratica artistica. Essere gay in quel periodo era come una condanna a morte, perché non sapevi esattamente cosa stesse succedendo. Così la natura divenne un rifugio per qualcosa di più grande di me. Mi consolava. Fu allora che scoprii Caspar David Friedrich, il pittore romantico tedesco che divenne il mio eroe».
Lo è ancora?
«Sì, ogni simbolo che creo si può ritrovare in un suo dipinto. Questa è l’idea romantica del sublime, fra natura, sentimento, sogno e irrazionalità. E poi c’è anche un’idea di contemporaneità, di questioni politiche legate alla situazione attuale».
Politico e poetico come i nudi che si stagliano sui pavimenti del museo.
«Sono archetipi di un alfabeto di immagini arcaiche e potenti, frammenti di natura e cosmo che vivono nella luce del giorno e nel buio della notte che filtra dalle finestre e ricollega l’arte alla natura e alla vita».